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Simone Giorgi

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – febbraio 2016 (libro uscito il 26 gennaio 2016)
Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Simone Giorgi, romano DOC, si definisce troppo pigro perfino per avere un hobby.

Eppure ne ha fatte di cose, per essere poco più che trentenne.

Dopo la laurea al DAMS ha sperimentato con coraggio tutti i sintomi della “sindrome da occupazione inefficiente”, nota patologia sistemica tipicamente indotta dal precariato: operatore di call center, biografo su commissione, addetto carico/scarico merci, insegnante in una scuola di recupero. E così via, la lista è lunga.

Oggi è un apprezzato autore televisivo, in forza al programma TV Sconosciuti che da anni trova spazio nel palinsesto di Rai 3.

Ha partecipato al Premio Italo Calvino per ben due volte. La prima nel 2012, con il testo intitolato Il peggio è passato che gli è valso la finale. Poi nel 2014 ha meritato addirittura la menzione speciale della giuria. Lo scorso 26 gennaio [2016] ha pubblicato con Einaudi (collana Stile Libero) il suo splendido romanzo L’ultima famiglia felice, nel quale analizza con disincantata acutezza i meccanismi che caratterizzano il nucleo sociale più importante e controverso della nostra società.

 

1) Il tuo romanzo esplora una famiglia come tante, eppure unica nelle sue peculiarità. Prova per un attimo a fingere di dover scrivere una voce su Wikipedia: riesci a definire l’essenza della “famiglia”?

Purtroppo no. Più ci penso, meno trovo una formula in cui racchiudere quell’universo che è la famiglia. Tutti i miei tentativi di analisi annegano nel senso di smarrimento: quello familiare è un istituto millenario, eppure ancora non funziona a dovere. Da cosa dipendono la sua vitalità e la sua perenne precarietà? Non so rispondere. Del resto è proprio questo interrogativo, questo smarrimento che guida il protagonista del romanzo, Matteo Stella; per tutta la vita ha cercato di fare della sua famiglia un nido felice, un riparo non oppressivo. Ma scoprirà a sue spese che nessuno, neppure il migliore dei padri (e lui, con le sue imperfezioni, è forse il miglior padre che io riesca a immaginare) o la migliore delle madri (e Anna, senza essere infallibile, è senz’altro una buona madre) o il più amorevole dei figli (Stefano lo è stato, prima di cambiare del tutto; Eleonora lo è ancora, a modo suo) può davvero dire a se stesso di non aver sbagliato nulla, di non aver partecipato in nulla all’infelicità dei propri familiari.

 

2) Come mai hai deciso di analizzare proprio questa tra tutte le impalcature sociali di cui facciamo parte?

Perché la famiglia è la struttura-base della nostra società. Quello che succede in famiglia, succede nella società che la contiene. Penso, per esempio, alla crisi del modello autoritario. Oggi spesso i politici, che sono i campioni del racconto mainstream, tendono a porsi non più come autorità irraggiungibili e infallibili, ma fingono di mettersi al nostro livello, si mostrano vicini, aperti al dialogo, disponibili alla rettifica. Matteo fa la stessa cosa, mentre sua moglie Anna vorrebbe una gestione dei figli meno morbida, non proprio all’antica ma certamente più decisa. L’impostazione di Anna sembra quasi insostenibile, all’inizio lei sembra la cattiva della situazione. Salvo che poi, col procedere della narrazione, anche Matteo si rende conto che nessun genitore può esimersi dall’essere un’autorità, la prima incarnazione del potere contro cui scontrarsi. Anna gli fa capire che a volte è proprio questo che cercano i figli: qualcuno così amorevole da assumersi il rischio di rendersi odioso. Certo, e qui sta il problema, nessuno può dirti quanto in là puoi spingerti, e nessuna teoria pedagogica ti mette al riparo dal fallimento: ogni essere umano è diverso, ognuno reagisce a modo suo all’imposizione delle regole, o alla loro assenza. Matteo Stella si attiene da sempre allo stesso credo pedagogico. La sua prima figlia, Eleonora, lo adora per questo. Stefano, il suo secondo figlio, lo odia per lo stesso motivo.

 

3) La tua riflessione sulle problematiche della famiglia è stata innescata da esperienze che hai vissuto in prima persona?

No, in questa storia non ci sono corrispondenze strettamente biografiche. Certo – come sempre accade quando si scrive – nel testo ci sono andati a finire i riflessi delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni che più hanno risuonato in me. Ci sono finiti dentro stralci di ricordi, dettagli di vissuto che comunque servono a rendere più viva la narrazione e più credibili i personaggi. Ma narrazione e personaggi rientrano a pieno titolo nella finzione. La mia famiglia non assomiglia quasi in nulla a quella del racconto. D’altra parte non conosco nessuna famiglia che sia davvero uguale a un’altra. E, al contempo, non ne conosco nessuna che non abbia la stessa “anima” di tutte le altre. Qual è quest’anima? La mia intenzione era appunto fare di questa domanda un romanzo.

 

4) Perché, secondo te, proprio all’interno della famiglia si manifestano i lati più oscuri dell’essere umano?

La prendo alla lontana. Nello studio dell’universo, in tutte le sue propaggini più remote, in un modo o nell’altro si finisce sempre col chiedersi: ma questo fenomeno che stiamo osservando da cosa è stato provocato? E poi a ritroso. A ritroso. Fino alla domanda delle domande: da dove nasce l’universo? Ecco perché il Big Bang ci affascina così tanto. La famiglia è il nostro Big Bang. L’Eden meraviglioso in cui siamo stati felici. La pastoia da cui è impossibile liberarsi. Il momento aurorale, quando la nostra coscienza non era ancora pienamente formata, e dunque ogni ribellione era impossibile: prima ancora di farci un’idea di noi stessi, il nostro carattere si era già plasmato a contatto coi nostri familiari. Possiamo provare a cambiare il nostro stile, il modo di fare, i gusti, ma non possiamo fare niente per cambiare il nostro imprinting, il nostro Big Bang. Non potevamo allora, eravamo troppo piccoli. Non potremo più, siamo già troppo grandi. Stefano però ha tredici anni; è in quella “terra di mezzo” in cui la ribellione è o sembra possibile, persino inevitabile. Ma nessuna ribellione è indolore.

 

5) Sulla porta della camera di Stefano campeggia un cartello che urla: “Qui papà non può entrare”. Quali sono i confini che i genitori da una parte e i figli dall’altra non dovrebbero mai valicare?

Matteo Stella ti risponderebbe senza pensarci: i limiti che un genitore deve rispettare sono quelli imposti dai suoi stessi figli. Anna a questo punto scuoterebbe la testa in un moto di disapprovazione. Eleonora disapproverebbe la disapprovazione della madre. Stefano sfoggerebbe il suo sorrisino strafottente, a sbeffeggiare tanto la tolleranza del padre quanto la fermezza della madre. Insomma, un gran casino. L’unica certezza è che nel contesto familiare tutti dovrebbero ricordarsi che gli altri, oltre ad avere un ruolo all’interno della famiglia, sono anche persone con una propria vita privata. Persone che commettono errori, in buona o cattiva fede. E questo noi figli fatichiamo a ricordarcelo e a tenerlo in considerazione.

 

6) Tu ci racconti una famiglia tradizionale” composta da padre, madre e due figli. Però il tuo romanzo è arrivato in libreria proprio il 26 gennaio, in piena bufera “family-day”. Troppo ghiotta la coincidenza per evitare la domanda: qual è la tua opinione sulle famiglie “non convenzionali” e sulle loro richieste per la parificazione dei diritti?

Ti dico la verità, io non ho capito cosa voglia chi si oppone alla parificazione. Il “family-day” mi sembra una pantomima che non fa ridere, un racconto fuori tempo massimo interpretato da attori inadeguati al ruolo. Fare ricorso al sentimento dello scandalo – per ottenere una censura – mi sembra inaccettabile. Se sei sicuro di quello che fai e le pratiche altrui non limitano le tue, perché mai dovresti protestare? Forse i sostenitori del “family-day” sono solo alla ricerca di un nemico, per sentirsi uniti e non guardare i dissesti all’interno delle proprie mura. Mi fanno pensare a marinai che, messi alla prova dalle mutate condizioni climatiche, abbiano scoperto quanto la loro nave fatichi ad affrontare i lunghi viaggi. E per tutta risposta, invece di adattare la loro imbarcazione alle nuove condizioni, quei marinai vanno a incendiare le navi di ultima generazione che da qualche tempo solcano i mari.

 

7) Torniamo al romanzo: che tipo di lavoro hai affrontato per scriverlo?

Tutto è partito da un racconto che ho sentito da un amico, mentre ero in vacanza. Da lì ho cominciato a ragionare su una possibile storia, e ne ho ragionato con Bruna, la mia compagna. Ecco, direi che lei è stata ben più di una lettrice privilegiata; è stata il mio story-analist personale. Parlando con lei ho sviluppato una scaletta e quando lei l’ha approvata ho iniziato la prima stesura. Per circa un anno ho scritto. Quindi per un altro anno, in attesa di trovare un editore, ho messo a posto, riscritto, riscritto, riscritto, riscritto. E Bruna ha riletto, consigliato, approvato, rifiutato…

 

8) Perché hai deciso di consegnare il tuo manoscritto al Premio Italo Calvino? Con quali speranze e con quali paure l’hai spedito?

Io ero già arrivato al Calvino nel 2012. Quindi, più che speranze e paure, avevo certezze. Sapevo che la finale del Calvino fa sì che molti editori leggano il tuo libro. Certo, nessuno può garantirti che quelle letture si trasformino in proposte di pubblicazione. Ma è chiaro che, per chi ancora non ha pubblicato, il primo e a volte più difficile passo è proprio farsi leggere. Così, quando Mario Marchetti (attuale presidente del Premio) mi ha chiamato per dirmi che ero in finale, ho sperato che stavolta qualcuno tra gli editori avrebbe deciso di trasformare il mio manoscritto in un libro vero e proprio.

 

9) Ci racconti l’incontro con le persone che animano il Calvino?

Guarda, già ti riempie d’orgoglio l’idea che lettori qualificati abbiano passato ore e ore del loro tempo a sorbirsi pile di manoscritti e poi abbiano trovato il tuo, lo abbiano discusso, appoggiato, amato. Poi arrivi lì, e ti senti subito protetto, coccolato. Dal giorno della finale del 2014 è stato tutto in discesa.

La prima persona che mi si è avvicinata è stata Francesco Colombo, editor di Einaudi Stile Libero. Non lo conoscevo di persona e guardandolo ho pensato: “Oddio, è uguale a come ho immaginato il protagonista del mio libro!”

Se fossi stato uno dal carattere più entusiasta avrei pensato a una magica coincidenza. Invece ho pensato a un caso singolare, magari di buon auspicio. Pochi giorni dopo Francesco mi ha detto che Stile Libero voleva pubblicare il romanzo. Forse stavolta avrei dovuto davvero considerarla una magica coincidenza. In effetti, quando ho iniziato a scrivere il romanzo, fantasticavo spesso di vederlo diventare uno dei libri con la costa gialla di Stile Libero.

 

10) E il percorso di editing con Einaudi?

È stato bello, non me l’aspettavo così. Ho avuto il piacere di lavorare a stretto contatto con Rosella Postorino. Non abbiamo fatto cambi strutturali, ma Rosella mi ha preso per mano e mi ha condotto attraverso una minuziosa, e a tratti esaltante, revisione del testo. Non c’è una sola parola, una sola virgola su cui Rosella non si sia soffermata, a volte mostrandomi che avevo commesso un errore, altre chiedendomi il perché delle mie scelte: se non avevo una risposta, significava che qualcosa non funzionava. Mi ha sorvegliato, Rosella, come una sorella maggiore che vuole renderti consapevole di quello che fai. Lavorare con lei è stato come quando, da adolescente, vai a dormire dal tuo migliore amico: quella sensazione di libertà, la sintonia senza ansie, e poi il desiderio di discutere di tutto prima che arrivi l’alba, la voglia feroce di scandagliare la propria vita e il modo in cui la stai affrontando.

 

11) Esiste “LA famiglia felice”? Come immagini la tua eventuale futura famiglia?

Non esiste “LA famiglia felice”. Esistono famiglie più o meno felici, a seconda del momento che stanno attraversando. E non conosco nessuna felicità che sia convenzionale. Nessuna che sia replicabile. Nessuna che sia immacolata: la felicità è sempre imperfetta, sempre a lato delle definizioni con cui la bracchiamo. Per ora, oltre a quella di origine, la mia famiglia è composta solo da me e dalla mia compagna. Non so se si allargherà e non so come la gestirò. Forse alla fine queste cose non si scelgono, si vivono come una ricerca, per tentativi ed errori.


 

Fabio Greco

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – Gennaio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Fabio Greco, classe 1977, è un biologo italiano che vive e lavora in Inghilterra; abita vicino alla foce del Tamigi, zona di cui parla con stupore divertito perché ospita improbabili foche e viene chiamata “mare” dagli inglesi.

Nato a Saronno ma cresciuto sotto il sole del Salento, Fabio riesce a intrecciare nella sua scrittura la poesia del Sud con l’incisività del Nord.

Ha scritto diversi racconti per la collana Le meraviglie di Milano, nata da un progetto di Luca Doninelli e del Centro Culturale di Milano (cMc), poi sviluppato in collaborazione con Guerini e Associati; tra questi spicca Milano è una cozza, che ha dato il titolo a uno dei volumi dell’antologia e che è stato interpretato dall’attore Fabio Rosafio nei “barbonaggi teatrali” di Ippolito Chiarello.

Il suo romanzo Genti a cartapesta, finalista della 27° edizione del Premio Italo Calvino, si è guadagnato appassionati apprezzamenti sia dalla Giuria che dai Lettori del concorso e ha riscosso un importante plauso da Gabriele Pedullà all’interno del laboratorio di RicercaBo.

N.d.R.: Genti a cartapesta è uscito con il titolo Il nome dell’isola per Autori Riuniti nel 2016.

 

1) Il tuo è un romanzo davvero molto particolare, perché intreccia senza soluzione di continuità i sapori del mito, della tradizione e del quotidiano. Le storie che racconti prendono spunto dalla realtà o sono frutto della tua fantasia?

Sono tutte storie inventate, ricordate, immaginate, metaforiche. I luoghi esistono, esiste l’isola delle Pazze, esiste il Salento, esiste Otranto, Ugento esiste: eppure nel libro non sono quelli delle guide turistiche, le distanze sono mutuate in funzione della narrazione, i nomi sono gli stessi, ma si tratta in realtà di luoghi immaginari. Non si provi per esempio a individuare una tale piazza, o una tale casa diroccata, o un tale bivio, o l’Ospedaletto, perché nella realtà non esistono, o esistono come sommatoria di tutti i bivi e le strade e le case diroccate e gli ospedaletti che io possa aver visto in quei luoghi o altrove. Questo vale anche per le storie raccontate nel libro, alcune vivono nella realtà come sottofondo culturale, come orizzonte comune, vivono come “cunti” per e nella tradizione, altre invece sono inventate, altre ancora prendono spunto da fatti reali, senza però alcun intento documentaristico, storico o di ricerca. Dove non potevo arrivare con la conoscenza, ci sono arrivato spudoratamente con l’immaginazione.

 

2) Le prime cose che saltano all’occhio leggendo Genti a cartapesta sono il trasporto e la poesia con cui descrivi i paesaggi della Puglia. Cosa rappresenta per te questa terra?

La prima risposta, la più autentica è: la Puglia è casa, in tutte le sue accezioni, nel senso di famiglia, di nido, ma anche nel senso di luogo elettivo e di formazione. Facendo un rapido calcolo, il periodo di tempo in cui ho vissuto in Puglia è minore rispetto al periodo in cui ho vissuto altrove, in Italia e all’estero. In Puglia però ho vissuto gli anni centrali, quelli che modellano l’identità personale e il proprio approccio al mondo. Questo fa la differenza. Da quasi cinque anni vivo in Inghilterra e più che “emigrante” mi definisco “esiliato”, per l’impossibilità del ritorno, per il miraggio del ritorno. Questo probabilmente incide sul mio modo di scrivere, sul mio modo di vivere, sulla mia idea (o idealizzazione, romantica forse) della Puglia. Che poi: prima di essere pugliese, sono soprattutto salentino e anzi, prima di essere salentino, sono leccese (il Salento include anche alcune zone del tarantino e del brindisino) e anzi, ancor prima di essere leccese, sono ugentino, e così è per quelli di queste terre, un campanilismo, un orgoglio della propria terra, viscerale, ingenuo, infantile. Ho un amico di Maglie, Marcello, per il quale le donne del Salento sono le più belle, il mare di Otranto è il più azzurro, la pizzica viene prima della taranta e così via: questo è bello, ha un forte carattere identitario, di appartenenza. Fermandosi però a questa dimensione idilliaca e stereotipata del Salento si rischierebbe di non vedere le storture e le contraddizioni di questa terra, che esistono e sono dolorose. In “Genti a cartapesta”, per esempio, un ruolo importante lo hanno gli ulivi, i marcantoni centenari o i Titani, come li definisce Roberto Gennaio; come non sentire una fitta dolorosa, una lacerazione nel vedere le foto di questi giorni dell’eradicazione di questi Monumenti della natura, a causa dell’infausto Piano Silletti (Silletti, commissario straordinario per l’emergenza, dimessosi da qualche giorno) nell’affaire Xilella? Si legga, in proposito, il libro-inchiesta di Marilù Mastrogiovanni, “Xilella Report”, dove viene evidenziato un miscuglio di inadeguatezza, dolo, opportunismo, superficialità, malaffare che stanno minando, prima ancora dell’ambiente o delle terre, i simboli e l’identità di una popolazione. Si tratta solo di un esempio, ce ne sono altri che riportano la Puglia a una realtà più drammatica (e forse più reale) di quella immaginata. Ecco quindi che a volte, a volte, la lontananza può essere un auspicio, può essere un desiderio, per poter vedere con più distacco la situazione, per poter utilizzare, al più, il potente filtro della memoria nel ricordo di una terra meravigliosa.

 

3) Le vicende narrate in Genti a cartapesta sembrano ruotare intorno alla fantomatica origine del nome di un isolotto, chiamato da sempre “Isola delle Pazze”. Perché hai scelto di usare proprio questo dettaglio come fil rouge del romanzo?

In realtà la storia del libro non è nata per ruotare intorno al nome dell’Isola delle Pazze. È un racconto con molti strappi, retromarce, aggiustamenti, infinite revisioni che nascevano dalla volontà di portare a galla qualcosa che è stato chiaro solo alla fine della prima stesura, cioè il valore forte della tradizione orale e della musica che sopravvivono nel Tacco. Non è un caso che uno dei libri più venduti nel Salento sia “La terra del rimorso” di Ernesto de Martino (un antropologo!). E l’Isola delle Pazze ha quel nome lì per ragioni che non sono documentate e nessuno può dire esattamente la genesi di quel nome. Ho pensato di aggiungere alle varie storie raccontate, le mie personalissime, a modo mio.

 

4) Anche i tuoi personaggi sono molto particolari: quanto somigliano alle persone che frequentavi quando vivevi lì?

Per i personaggi vale quanto detto prima: non si riferiscono in alcun modo a persone conosciute, non esistono i Vecchiarazza come non esiste la vecchi’Amanda o la Mariabbondanza. Epperò, da qualche parte, esistono anche dal vero, li si può trovare qui e lì, in alcuni borghi sperduti della provincia, in alcune masserie e parrocchie e, quelli sì, sembrano prendere ispirazione, per vivere, dai personaggi del mio testo.

 

5) Genti a cartapesta: perfino il titolo sa d’invenzione e di metafora. Ti va di spiegarlo?

Penso che la risposta migliore possa arrivare leggendo il breve stralcio riportato di seguito.

 

Gli pareva d’essere un tutt’uno con quelle genti di prima e con le genti di ora, genti di lassotta che tenevano intra agli occhi lo stesso orizzonte, tenevano intra al naso gli stessi profumi e intra alle orecchie lo stesso mare; genti d’altrove che si portavano appresso la tremula dei secoli di tutte le genti inquiete che cercavano requie lassotta; genti raminghe, che vagavano senza meta intra a luoghi e tempi; genti a cartapesta che le storie gli s’appiccicavano addosso foglio a foglio a macerare, frammenti e parole che divenivano intra un colpo solo, passato e storia e veste e carne e cuore, s’appoltigliavano intra a un miscatiglio, e immantinente originavano nuove storie e nuove vite che s’artigliavano dritte dritte intra alle carni, a sensazione; genti che arrivavano e partivano per nostalgia della nostalgia, in cerca dell’assenza, della mancanza, per farsi apparire più bello quel loro sud del Sud, gent’indifese affogate intr’a quella vita loro che gli arrivava addosso come una mareggiata.

 

6) Il passaggio che hai appena riportato dimostra perfettamente la caratteristica più evidente del tuo testo: il linguaggio. Perché hai utilizzato questa sorta di semi-dialetto al posto dell’italiano?

Nello scrivere il testo, mi sono reso conto quasi subito che i fatti che avevo intenzione di narrare avevano una loro forza metaforica e metafisica, che però non emergeva appieno utilizzando la pulizia dell’italiano. La contaminazione dialettale invece mi permetteva di raggiungere con una grande forza espressionista i punti “alti” della narrazione, quelli più lirici e poetici, e allo stesso tempo, di scendere in maniera più decisa verso i punti “bassi”, quelli più gretti e mitologici. La mia non è stata un’operazione di stampo verista, un tentativo cioè di restituire la parlata e il dialetto del Salento, per rendere più reali i fatti narrati. Tutt’altro. Mi sono preso la libertà di utilizzare, in una sorta di mutuo equilibrio con l’italiano, le parole che mi permettevano di restituire un certo colore al racconto, parole che per assonanza ed etimologia potrebbero assomigliare, o essere esattamente, quelle del dialetto salentino, ma che magari venivano permutate e utilizzate in una maniera diversa; ho poi utilizzato anche parole di altri dialetti meridionali; parole di dialetti del nord Italia (Mi che te vardo mò,/ Mariabundansia,/ d’intra alle nìure balote de l’oci…); parole inventate (boterosa, champagnoso, leggiuto…); in tutto questo ho tentato di mantenere una coerenza linguistica e narrativa per tutto il libro. Ad un certo punto mi sono reso conto che il linguaggio che stavo utilizzando non era più solo il mezzo necessario per raccontare: era diventato, esso stesso, il fine del mio scrivere, la mia realtà narrativa e che il racconto emergeva in maniera più aderente alle mie intenzioni soprattutto grazie a un certo andamento della frase, a un certo ritmo, a un suono, a una particolare scelta di vocaboli e alla loro posizione all’interno della frase. Tutto questo deve essere ben calibrato, non è un arido esercizio di stile. Il fine ultimo della Letteratura è, e deve sempre essere, quello dell’emozione.

 

7) Al termine di questo lungo percorso hai deciso di spedire il manoscritto al Premio Italo Calvino. Perché?

Ho inviato il manoscritto al Calvino come reazione al silenzio delle case editrici. Conoscevo già il Premio ma non vi avevo mai partecipato. Ho inviato il manoscritto nell’ultima settimana utile prima della scadenza, fine settembre mi pare. I manoscritti ricevuti nell’annata 2013/2014 sono stati circa ottocento (ottocento!). Nove (9!) i finalisti. Ci vuole una certa dose di ottimismo, di ambizione e d’incoscienza nello sperare di essere lì, alla fine.

 

8) Come hai vissuto i mesi di suspense prima della finale? E cosa ti è rimasto di questa importante esperienza?

Io al Calvino non ci stavo proprio pensando più, giacché da pochi mesi avevo scoperto che sarei diventato padre e questo aveva già stravolto le priorità in maniera totale. Poi è arrivata la telefonata da parte di Mario Marchetti, un gentiluomo, oggi Presidente del Premio, che mi ha ufficializzato l’accesso alla finale: a emozione si è aggiunta emozione.

Non ho pensato realmente di poter vincere, ma ho sperato che il libro ricevesse una menzione per la dose di rischio che comportava l’utilizzo di quel linguaggio. Le cose sono andate diversamente, ma va bene così. Nutro grande affetto per i finalisti di quell’anno, per la condivisione di questa esperienza che ha segnato ciascuno di noi. Il Premio Italo Calvino del 2014 è stato vinto meritatamente da Pier Franco Brandimarte con L’Amalassunta, un libro bellissimo poi pubblicato da Giunti.

Con Pier Franco, con Gianni Agostinelli (Perché non sono un sasso, Del Vecchio Editore), con Francesco Paolo Maria Di Salvia (La circostanza, Marsilio) e con Simone Giorgi (L’ultima famiglia felice, Einaudi Stile Libero, in uscita il 26 gennaio [2016]) sono costantemente in contatto: nonostante la lontananza imposta dalle nostre scelte di vita, si è creato un forte legame di amicizia.

 

9) Cos’è successo dopo il Calvino? Perché Genti a cartapesta non ha ancora trovato un editore?

La credibilità di questo concorso nell’ambiente letterario italiano è data soprattutto dal sistema di lettura e di selezione che i Lettori del Premio (persone appassionate e competenti) mettono in atto per diversi mesi all’anno, prima di decretare i finalisti. Essere un finalista del Premio Italo Calvino, proprio in virtù di questa credibilità, diventa una sorta di bollino verde sulla bontà della scrittura e sulla qualità del tuo scritto. La pubblicazione dei finalisti tuttavia non è automatica, perché il mercato editoriale deve soddisfare altre esigenze che non sono strettamente legate alla qualità.

Genti a cartapesta è stato inviato a numerose case editrici. La maggior parte non ha avuto la decenza di rispondere, un malcostume che puzza di arroganza e mancanza di rispetto. Quel silenzio lì è più logorante, sfacciato, antipatico e maleducato di una risposta negativa precompilata inviata tramite email. Ringrazio pertanto quelle case editrici (cinque) che mi hanno inviato una risposta, anche se negativa. Al netto dei complimenti, che rendono la risposta un po’ meno amara, le motivazioni più frequenti per la mancata pubblicazione sono state: una difficile collocazione del testo nel mercato editoriale, un linguaggio bellissimo ma non accessibile (a detta loro) a tutti, un libro poco commerciale (il libro non garantirebbe un ritorno economico), una trama scarna.

Io, dalla mia, penso solo di aver scritto un testo che meriterebbe di diventare libro, che meriterebbe di stare in libreria, di essere letto e giudicato dai lettori.

Un paio di mesi fa, grazie a Davide Orecchio, due stralci di Genti a cartapesta sono stati ospitati su Nazione Indiana e hanno ottenuto dei buoni riscontri. Questo mi fa ben sperare. Al momento sembra ci sia l’interessamento da parte di alcune case editrici e di alcuni agenti letterari. Non mi sbilancio. Valuterò la soluzione migliore per il libro qualora dovessero arrivare proposte concrete.

 

10) Nell’attesa di ulteriori sviluppi hai scritto altro? Hai già un nuovo romanzo nel cassetto?

Di solito questa domanda arriva subito dopo la pubblicazione del primo libro. Quindi potrei svicolare e non rispondere. Rispondo, però. Non ho un altro romanzo nel cassetto, ho alcuni pezzi, progetti, movimenti che aspettano di venire amalgamati in un disegno unitario e che non necessariamente porteranno a un romanzo (li definirei “voci per teatro”). Ci sarà poi una sorpresa per quanto riguarda il racconto Milano è una cozza: comparirà in un libro di tecniche narrative, assieme ad altri testi firmati da noti nomi del panorama letterario italiano (per esempio Paolo Zardi, Dario Voltolini, Gianluca Morozzi, Raffaele Riba solo per citarne alcuni). L’antologia, intitolata Questo libro si può anche leggere, verrà pubblicata da una nuova casa editrice di Torino, la Autori Riuniti, nata da un progetto interessante e innovativo che riporta lo scrittore al centro della filiera editoriale.

Inoltre c’è un abbozzo di progetto per un libro di divulgazione scientifica che mi permetterebbe di affiancare l’esperienza della scrittura alla mia professione di biologo.


 

Giuseppe Imbrogno

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – ottobre 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Giuseppe Imbrogno è un progettista sociale milanese che coltiva da tempo un tenace rapporto con la scrittura.

Ama il tennis, le serie TV di David Simon, i film di Werner Herzog e i libri di Carrère.

Durante gli studi ha vissuto per due anni in Germania, dopodiché ha lavorato nel marketing e infine è approdato al no profit, settore in cui oggi lavora.

La Giuria della 29° edizione del Premio Italo Calvino ha conferito al suo romanzo, intitolato Il perturbante, una menzione speciale meritatissima; utilizzando uno stile moderno e suggestivo, Giuseppe ha infatti costruito un romanzo molto particolare e praticamente perfetto, in grado di mostrarci come le nostre vite siano ormai connesse alla rete e quanto siano arrivate a coincidere con essa. La storia che ci racconta potrebbe riguardare chiunque ed è proprio per questo che il suo testo risulta così magnetico e inquietante.

N.d.R.: Il perturbante è stato pubblicato a ottobre 2017 da Autori Riuniti.

 

1) Il tuo romanzo ci presenta un tema estremamente attuale, cioè il rapporto tra l’uomo e la “rete”. Partiamo dai social network, che ne sono il fenomeno più evidente: come funziona secondo te il meccanismo che ce ne rende in qualche modo “dipendenti?”

Nel Perturbante il fenomeno dei social network è strettamente connesso a quello del desiderio, dell’osservazione, della conoscenza tra individui. Un uomo (Lorenzo) incontra per caso un altro uomo (Sergio). Raccoglie delle prime informazioni. La curiosità e l’interesse aumentano. La sua professione (analista di big data) e le infinite possibilità offerte dalle nuove tecnologie gli consentono di ampliare ulteriormente questa ricerca e ad ogni nuova informazione aumenta la sua sete di ulteriori informazioni. Questo tipo di relazione, in cui “si conosce” e “si ignora” allo stesso tempo, è caratteristica dei social network. Pensiamo ai diversi “amici” che nella vita reale quasi mai incrociamo e di cui, però, sappiamo tantissimo. Oppure alle relazioni con “oggetti” e “fenomeni” che riguardano non il singolo ma i gruppi, le comunità e che, per certi versi, sono ancora più interessanti. Nei vari #JeSuis che durano una settimana o nelle bufale che portano le persone a litigare in rete e a volte a scendere in piazza, ci si illude di essere realmente in contatto con l’oggetto, si perdono di vista gli strati, le mediazioni, i limiti della consapevolezza. “Conosciamo” e insieme “ignoriamo”, appunto.

 

2) L’esposizione personale nelle vetrine virtuali: quanto è auto-determinata e quanto invece è pilotata senza che l’utente se ne renda conto? In questo teatrino chi è il vero burattinaio?

Entro in un locale, riconosco un volto, quella persona è tra i miei contatti di Facebook, i nostri sguardi si incrociano, a volte ci si saluta imbarazzati, spesso nemmeno quello. Eppure di quella persona io conosco diverse cose, anche private: se gli/le piace il sushi, dove è stato/a in vacanza, se è fidanzato/a, quali sono le sue posizioni politiche, se ha vissuto di recente un lutto. Alcune informazioni me le ha fornite lui/lei, altre me le sono costruite io a partire da quelle che lui/lei, spontaneamente, ha fornito. Premesso che FB è un’azienda privata che vive dei dati che noi forniamo, penso non sia possibile ascriverle responsabilità che, di fondo, sono nostre. Se da una parte siamo da sempre immersi nel desiderio per l’Altro, allo stesso tempo, da sempre, amiamo essere cercati, osservati, ammirati, conosciuti. Il social ci dà questa possibilità e, in una qualche misura, alimenta la nostra inclinazione a esporci. Grazie a queste nostre inclinazioni Zuckerberg e altri fanno soldi, molti soldi.

 

3) Il protagonista del tuo romanzo, tramite la rete, riesce a scoprire un’infinità di cose sulla vita di Sergio, il suo “oggetto del desiderio”; secondo te è la presenza di internet ad alimentare la curiosità o è la curiosità umana a determinare l’uso di internet?

Credo che il desiderio e la curiosità più o meno morbosa per l’Altro siano, di fatto, alla base della nostra evoluzione. È per questo che abbiamo iniziato a interrogarci sul mondo, è per questo che siamo usciti dal brodo primordiale e mosso i nostri primi passi sulla terraferma. Lorenzo è un data analyst: “lo studio degli altri” è per lui tanto una professione quanto una passione personale che grazie alle nuove tecnologie (i social network, ma anche le carte di credito, i lettori delle casse dei supermercati, ecc.) può essere soddisfatta anche di sera e nei weekend, diventando un’attività che occupa la sua intera esistenza. Per lui tutto ciò che è presente in rete (le previsioni del meteo, gli ordini su Foodora, le recensioni su Tripadvisor, ma anche gli sms inviati alla fidanzata, la cronologia delle ricerche su Google) è automaticamente “a disposizione”. Non esistendo confini fisici, non ne esistono nemmeno di morali. Le colonne d’Ercole appartengono al passato.

 

4) Non solo la nostra socialità, anche i nostri conti, il nostro lavoro e perfino la nostra salute viaggiano sui canali della rete. È ancora possibile la privacy o è solo un’illusione?

Scrivo una lettera, la metto in una busta, la sigillo, la spedisco. A Poste Italiane non interessa il contenuto della lettera, ma solo che io la stia spedendo. Se invece scrivo un post, a Facebook non interessa l’atto della trasmissione, bensì il suo contenuto. I social network la lettera vogliono leggerla e vogliono che siano in tanti a poterla leggere. Lo stesso avviene quando uso una carta di credito (a Visa interessa, eccome, sapere che cosa sto comprando) o quando faccio una ricerca su Google e dopo un secondo mi arriva della pubblicità mirata. I nostri dati sono una merce molto ricercata e, come tale, redditizia. Lo scambio che ci viene continuamente proposto è quello di cedere parte dei nostri dati al fine di poter accedere a qualche servizio. Esistono delle alternative? Certamente. Ad esempio negli ultimi tempi i contenuti personali su Facebook sono di molto diminuiti a scapito delle news, fatto che sta preoccupando non poco Zuckerberg e soci. La possiamo considerare una forma di “resistenza”? Allo stesso tempo, però, qualche giorno fa, un mio collega: “Hai visto Googlephoto? Certo, poi loro hanno tutti i miei album, però che comodità!”. Gli album di fotografie, cartacei, sono gli stessi che la mamma o la nonna mostravano in un preciso momento della vita, una sorta di cerimonia laica. Oggi la stessa cosa la fai con un clic e accetti di offrire tutta la tua vita a un’azienda privata, per sempre.

 

5) Cosa ti ha spinto a scrivere questo romanzo?

Se quello del desiderio è sicuramente un tema classico nella letteratura, credo che un elemento nuovo del romanzo Il perturbante sia quello di assumere il punto di vista di chi “interpreta” persone, esistenze e rapporti traducendoli in dati, numeri e connessioni. Io uso i social network con una certa frequenza, li trovo degli ottimi aggregatori di informazioni; spesso, come tutti credo, faccio pure fatica a “mettere insieme” o a “fare ordine” tra queste informazioni. Volevo esplorare questo aspetto, provare a raccontare la Weltanschauung di chi ha fatto della raccolta, dell’analisi e dell’interpretazione di queste informazioni la propria professione e la propria principale occupazione. Assumendo la “prospettiva dei big data”, come interpreto il quotidiano? Come leggo certi fenomeni? Quali diventano i miei criteri di scelta e i miei valori, ammesso che ancora di valori si possa parlare? Se tutto è informazione, ha ancora senso parlare di giusto e sbagliato? Di pubblico e privato? Di passato e futuro? Non diventa tutto terribile e, allo stesso tempo, paradossalmente liberatorio?

 

6) Parlaci un po’ della tua esperienza con il Premio Italo Calvino: perché hai partecipato e cosa ti ha dato il PIC?

Il Premio lo conoscevo già, ma fino all’anno scorso non avevo mai pensato di parteciparvi. Durante la scrittura del testo Il perturbante ho avuto la fortuna di poter fare leggere il testo ad alcune persone i cui giudizi e consigli sono stati fondamentali. Parlando con uno di loro, un giorno, è nata l’idea del Calvino.

Ovviamente tutto quello che è successo è stato per me inaspettato. Credo che una delle principali necessità per chi scrive sia quella di ricevere validi “riscontri”. La propria cerchia personale, come detto, è fondamentale, ma non può essere esaustiva. I Lettori e la Giuria del Calvino mi hanno dato soprattutto questo: un riscontro oggettivo, un giudizio professionale e la consapevolezza che il mio romanzo possa interessare qualcun altro.

 

7) Dopo la menzione del Calvino, cosa ti aspetti dal tuo romanzo e quali progetti hai per il futuro?

Chi scrive lo fa per diversi motivi, certo, ma alla base c’è una prima, semplice ragione, in fondo la stessa per cui scriviamo un post on line: essere letto da altre persone. In questo, se vogliamo, il rapporto tra Lorenzo e Sergio ha qualcosa del rapporto tra scrittore e lettore. La mia speranza è, quindi che Il perturbante possa essere letto da altre, possibilmente tante persone. Quanto al futuro immediato, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 dovrebbero essere pubblicati alcuni miei racconti, mentre sono impegnato nei lavori di ricerca e di prima stesura di un nuovo romanzo.

 


 

Yasmin Incretolli

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon
 

Yasmin Incretolli, romana poco più che ventenne, è la prima donna esordiente presentata dalla rubrica Ritratti dal Calvino. Il suo manoscritto, intitolato significativamente Ultrantropo(rno)morfismo, ha meritato la menzione speciale della giuria della 28° edizione del PIC e sarà in libreria a partire dal 9 giugno [2016] con il titolo Mescolo tutto, pubblicato dalla casa editrice Tunué. Yasmin, benché giovanissima, ha prodotto una delle narrazioni più cupe, claustrofobiche e violente che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi, resa ancor più spiazzante da un linguaggio sui generis che in qualche modo ostacola – ma allo stesso tempo amplifica – il riverbero livido delle tematiche trattate. Mescolo tutto è un testo sofferto e sofferente, che descrive senza mezzi termini realtà oscure e torbide, troppo spesso affrontate in modo morboso e superficiale.

 

1) Tu scrivi fin da quando eri bambina. Qual è il bisogno che soddisfi con la scrittura?

Nell’infanzia la pratica della scrittura è sempre stata il mio gioco preferito; lo facevo in modo spensierato, senza prenderla sul serio. Quello che prendevo molto sul serio era invece la lettura. Solo successivamente sono diventata consapevole della forza che la scrittura aveva su me. Il gioco si è trasformato in hobby e da lì, in pochissimo tempo, mi ha totalmente assorbita. Scrivendo riuscivo in qualche modo a sentirmi meglio, forte e bella. Grazie alla scrittura ho imparato ad apprezzare me stessa, così ciò che era nato come un gioco è arrivato a essere una vera e propria esigenza esistenziale.

 

2) Il tuo è un libro caratterizzato da toni molto forti, che sfiora a tratti livelli di violenza anche brutali. Da dove viene la storia che hai scelto di raccontare?

Ho scritto il romanzo quando avevo diciannove anni (la stessa età della protagonista), in un momento molto particolare del mio percorso di lettrice. Mi dividevo tra letterature sperimentali e romanzi destinati a un pubblico adolescenziale. Desideravo accordare gli aspetti peculiari di entrambi, ovvero da un lato linguaggio e contenuti a volte crudi e, dall’altro, le creature irrazionali e fragili della letteratura young adult. Mi interessava anche ribaltare in tragedia gli stilemi classici della narrativa adolescenziale. In Mescolo tutto non c’è lieto fine, non c’è consolazione: Chus, il ragazzo di cui si innamora la protagonista Maria, non è redimibile. Anzi, nel corso della storia si trasforma in carnefice e finisce addirittura per venderla ai suoi amici.

L’autolesionismo della protagonista è in sé il riflesso del silenzio a cui è stata costretta. Credo possa essere emblematica in questo senso la scena in cui Chus, in un gioco erotico da lei accettato ma non desiderato, le fascia la testa con della pellicola trasparente, arrivando quasi a soffocarla. Il mondo vuole ridurre Maria a mero corpo, così lei mortifica e tortura questo corpo. L’autolesionismo comunica la sua richiesta d’aiuto, dribblando le barriere di un ascolto passivo. Il sangue, peraltro, è parte significativa nell’esperienza adolescenziale delle ragazze. Dall’arrivo della prima mestruazione inizia una convivenza forzata, intima e conflittuale fra la donna e il sangue. Una corrispondenza simbolica atavica e determinante. Non mi stupisce, allora, che il fenomeno dell’autolesionismo colpisca maggiormente le donne. Cito un recente fatto che mi ha scatenato tanta tenerezza: l’hashtag #cut4zayn. Alcune directioners (fan adolescenti degli One Direction), turbate dall’abbandono di un componente del gruppo, hanno manifestato il loro disappunto postando foto di lesioni cutanee autoinflitte, nella speranza che il loro sangue servisse più delle parole. Questo dice molto.

 

3) Tu e Maria: quanto c’è di lei in te?

Poco. Pochissimo. Lei, paradossalmente, ha un tipo di coraggio che le invidio. Il coraggio di toccare il fondo, tirare fuori le unghie e scavare una galleria da cui sgusciare fuori. Io al contrario grido finché qualcuno mi raccoglie col cucchiaino.

L’uso della prima persona tuttavia è stata una scelta narrativa inevitabile, per mantenere una forte aderenza, anche emotiva, tra il narrato e la protagonista.

 

4) Maria, l’autolesionismo e il sesso. Cosa tiene insieme questo triangolo?

Maria sa bene che nell’epoca del corpo delle donne è relativamente semplice stare al mondo se riduciamo noi stesse a creature desiderabili e soprattutto accomodanti. Sa che concedersi, farsi trattare male, lasciarsi reificare, a volte pure rendersi zimbello, sono le maniere più lisce e ‘‘sicure’’ per farsi accettare dalla gente. E lei sente continuamente il bisogno d’essere accettata: è ciò che la porta a innamorarsi di Chus e ad accettare qualunque sua richiesta, è ciò che la porta poi a unirsi al gruppetto dei milanesi ricchi e viziosi, sebbene sotto sotto capisca che la accettano solo perché vedono in lei poco più che uno strano giocattolo nuovo.

Non mi sento però di mettere necessariamente in relazione questo stato esistenziale all’autolesionismo, anzi, è probabile che dentro di lei ci sia un contrasto tra la volontà di piacere e l’istinto a chiamarsi fuori dal gioco, a disgustare, a farsi rifiutare deliberatamente.

L’io e il corpo, in Maria, sono divisi dalla ripugnanza; se Maria si trova spesso coinvolta in situazioni carnali è perché il mondo la vuole sempre e solo ridurre a oggetto.

 

5) Il linguaggio che hai creato per Maria: perché?

Il linguaggio di Maria, la ricerca continua di parole astruse, la combinazione tra il forbito e il triviale, è una delle chiavi centrali del romanzo. Maria comincia a ‘‘parlare difficile’’ per difesa, cercando di distinguersi dalle etichette che il mondo le appiccica addosso sulla base di categorie sessuali e socioeconomiche. Per lei il linguaggio è uno scudo e un’armatura, cosa che può essere efficace a livello interiore, ma non sempre funziona con il mondo esterno: per i compagni di scuola diventa semplicemente una stramba fuori di testa, la madre le intima di parlare come mangia, mentre i milanesi restano affascinati e divertiti dal suo parlato fino al punto di mettersi a imitarlo solo perché lo trovano divertente, non certo perché lo prendano sul serio.

Si potrebbe dire che Maria utilizza una lingua esageratamente forbita, che a volte finisce per tracimare perfino nel narrato, anche nel tentativo di dare complessità a un mondo che vuole semplificare ogni cosa compresa lei, riducendola ai minimi termini di ragazzina-oggetto ed emarginata.

 

6) Come ti ha accolto l’ambiente del Premio Italo Calvino?

Il Premio Calvino è stata una bellissima sorpresa. Non mi sarei mai aspettata di arrivare in finale, con tanto di menzione speciale della giuria. Pensa che mi sono iscritta al concorso soprattutto perché ai partecipanti viene consegnata un’accurata scheda di lettura sul manoscritto inviato: volevo capire se il mio testo valeva qualcosa. Alla fine il libro ha suscitato un dibattito molto interessante tra i giurati e mi ha fatto davvero piacere che siano state apprezzate le scelte stilistiche del testo, considerate ardite per un’autrice della mia età.

 

7) La tua esperienza con la casa editrice: è stato difficile arrivare alla pubblicazione?

Il mio libro è stato selezionato da Vanni Santoni, curatore della narrativa Tunué. Lo ha scoperto a partire dagli estratti dei finalisti del Calvino che vengono pubblicati sull’Indice dei Libri del Mese. Mi ha contattata tramite il Calvino e da lì abbiamo lavorato molto intensamente sul romanzo; mi ha fatto riscrivere alcune parti poco chiare, mi ha aiutata a organizzare alcuni aspetti strutturali, mi ha pure chiesto di scrivere scene nuove per dare maggiore spessore alla seconda metà, che all’inizio era più breve e scarna rispetto alla prima. Per quanto riguarda la prosa mi ha chiesto di “alleggerirla” in alcuni punti, così da far risaltare meglio la scrittura complessa là dove serviva di più. Il tutto si è svolto sempre nel pieno rispetto del testo originale e dei suoi intenti.

Il titolo definitivo con cui il libro è stato pubblicato è comunque mio; che quello originale dovesse essere sostituito era ovvio, così Santoni mi ha chiesto di proporre una decina di alternative. Alla fine abbiamo optato per “Mescolo tutto”, che è una citazione tratta dal lavoro di Gina Pane, pioniera della body art, la quale utilizzava il suo stesso corpo come opera, anche attraverso tagli e ferite. La cito infatti anche in esergo.

 

8) Cosa ti ha lasciato la partecipazione al Salone del Libro di Torino?

Al Salone ho vissuto un momento intenso, e formativo. Ascoltare altri scrittori aiuta molto una esordiente. Però ciò che ho preferito in assoluto è stata la possibilità di scoprire realtà editoriali che non conoscevo. Un po’ come a Più libri più liberi mi sono fatta prendere dall’acquisto compulsivo e sono tornata a casa con una dozzina di volumi pubblicati da piccoli editori. Sto leggendo e amando Il grande animale di Gabriele Di Fronzo.

 

9) Tra tutti i commenti ricevuti in merito al tuo libro, qual è stato quello che ti ha ferito di più e quello che invece ti ha lusingato di più?

Il commento che più mi ha lusingato è stato ‘‘hai creato un’altra lingua’’, perché il tema della creazione della lingua in Mescolo tutto non è un vezzo stilistico, ma una vera e propria chiave narrativa. Al di là di questo ho ricevuto molti apprezzamenti lusinghieri, ancora prima dell’uscita del libro. Sono stata fortunata a trovare così presto un editore di qualità che abbia voluto credere in me e che mi abbia aiutata a lavorare sul testo, e so bene quanta strada mi resti ancora da fare per affinare la mia scrittura, però sono molto felice che il mio primo esperimento sia stato ben accolto. Per quanto riguarda i commenti cattivi, lasciano il tempo che trovano: sono consapevole che Mescolo tutto, per i temi che tratta e per il modo in cui è scritto, possa risultare un libro controverso: fino ad ora per fortuna i commenti positivi sono prevalenti.


 

Carlo Loforti

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Carlo Loforti è nato e cresciuto a Palermo, dove lavora come creativo. Si è Laureato in psicologia, è sopravvissuto con dolore alla fine dei Cavalieri dello Zodiaco e ha imparato a riconoscere i borseggiatori ancor prima che escano di casa. Nonostante abbia soltanto ventinove anni, è il creatore della web serie Senza contratto e scrive per la rivista L’eco del nulla. Definirlo semplicemente un personaggio sui generis sarebbe riduttivo.

È stato uno dei finalisti della 28° edizione del Premio Italo Calvino e il 14 aprile [2016] è arrivato in libreria il suo primo romanzo, intitolato Appalermo, Appalermo! e targato Baldini&Castoldi. Un libro da leggere tutto d’un fiato, fresco e intelligente.

Il 13 maggio [2016] sarà ospite del Salone del Libro di Torino, assieme ad altri autori emersi dal palco del PIC.

 

N.d.R.: a novembre 2017 è uscito il suo secondo libro, Malùra, sempre per i tipi di Baldini&Castoldi.

 

1) Mimmo Calò è il personaggio centrale del tuo romanzo. Come lo hai creato?

Mimmo Calò ha vagato nella mia mente per diversi anni, alla ricerca di una storia. Lui c’era, la storia no, non ancora. Se n’è stato lì per ventisette anni, a lievitare; un mix di lieviti diversi sopiti dentro di me.

Era un personaggio spugnoso, assorbente ma anche capace di secernere. Paziente. Ha pazientato per ventisette anni; poi, trovata la sua storia, si è imposto sulla carta.

L’incontro più divertente di questi miei primi ventinove anni di vita, forse.

 

2) Il tuo protagonista indossa di frequente i panni del maschilista: parla delle donne come parla del pallone, due “cose” che possono farlo sentire tanto “un Dio” quanto “l’ultimo sfigato sulla terra”. Perciò ti chiedo: per te cos’è il calcio e cos’è la donna?

Più che maschilista io lo definirei “femminista in incognito”, quasi un infiltrato. È una certa deferenza nei confronti delle donne, il credersi inferiore, a renderlo così tanto (apparentemente) maschilista. È un maschilismo empirico, il suo. Mimmo approccia le donne come farebbe un meccanico con un’auto che non riesce a mettere in moto: fa le prove, argomenta scelte e strategie e, nel farlo, si diverte e cerca di capirci qualcosa.

Cos’è il calcio? Cos’è la donna? Quando saprò rispondere sarai la prima a saperlo, giuro. Al momento posso solo dire che con Appalermo, Appalermo! ho cercato insistentemente le risposte anche a queste domande.

 

3) La Sicilia che racconti fa pensare a una rivisitazione in una chiave ironica (o dovrei dire “comica”?) di quella vera: c’è dentro tutta la verità, ma rivelata sorridendo.

La Sicilia è comica. Tragica e comica, spesso contemporaneamente. Tragedia e commedia, durezza e leggerezza, nella loro continua alternanza, non hanno fatto altro che confondermi di continuo. Forse questo romanzo è nient’altro che il tentativo di mettere in ordine questi impulsi confusi proprio attraverso una risata liberatoria.

L’ironia mi è sembrato il modo migliore per canalizzare tutta l’energia che avevo bisogno di mettere su carta.

 

4) Hai scelto di usare un linguaggio parlato, popolare, dialettale. Hai lavorato per costruirlo così o ti è venuto fuori spontaneamente?

Quando io e Mimmo Calò ci siamo conosciuti, dentro alla mia mente lui mi parlava così. Non potevo non rispondergli a tono. È stato un atto dovuto, un esercizio di sincerità, addirittura scontato; non potevo voltargli le spalle mettendo filtri che sarebbero stati superflui.

Per questo, la scelta del linguaggio non è stata né pericolosa (almeno per me) né difficile. È stata l’unica scelta possibile.

 

5) Il caso, il destino e il libero arbitrio: tre elementi basilari su cui poggia l’intreccio del tuo libro, che ci porta a riflettere sul prezzo che costa, a volte, dire di no.

È vero, la storia di Mimmo, per quanto condizionata da sfortuna e caso, è in realtà impregnata di libero arbitrio. Calò è un uomo che crede in se stesso (forse troppo) e nel coraggio delle proprie scelte (nella maggior parte dei casi sbagliate). Sono le sue decisioni a innescare gli ingranaggi del destino, non viceversa.

Per quanto riguarda il suo rifiuto di sottomettersi al sistema del pizzo, mi piace pensare che per scelte di questo tipo non ci sia un prezzo da pagare. Ovviamente possono esserci delle conseguenze, però mi piace pensare che un giorno il coraggio di non cedere all’estorsione verrà percepito sempre più come un riflesso condizionato e inevitabile, e non come qualcosa che comporti a sua volta un costo da pagare. Solo allora, quando la legalità verrà vissuta come una reazione/azione inevitabile piuttosto che come un sacrificio, saremo a buon punto nella lotta alla mafia.

 

6) Nel tuo romanzo Palermo è coprotagonista a tutti gli effetti. Che rapporto hai tu con questa città?

Io Palermo la vivo in due modi. Primo: come una donna che mi rendo conto di non amare più, ma che non riesco comunque a lasciare. Secondo: come la donna con cui spero di trascorrere la mia vecchiaia.

 

7) Cosa ti ha spinto a inviare il manoscritto al Premio Italo Calvino?

La consapevolezza di essere estraneo alle logiche dell’editoria. Prima di partecipare al concorso non avevo rapporti con questo mondo e per un perfetto sconosciuto è molto difficile attirare l’attenzione delle grandi case editrici. Il Premio Italo Calvino è oggi, in Italia, uno dei pochi percorsi davvero utili per riuscire a sbloccare l’ingranaggio. E poi Calvino è stato l’autore della “nobile leggerezza”; visto il tono del mio romanzo, a chi altri potevo inviarlo?

 

8) Cos’ha significato per te partecipare al PIC?

Mi ha permesso di dialogare con le case editrici, mi ha dato la possibilità di confrontarmi con un primo vero pubblico. E poi mi ha fatto sentire a casa, protetto da tutte le persone che vi lavorano e che si sono prese di cura di me dall’invio del testo fino al post pubblicazione.

 

9) A questo proposito: tu cosa hai potuto imparare durante il percorso che ti ha portato alla pubblicazione?

Ho imparato tanto, spero. Ho capito che fare l’autore non è barricarsi dietro una roccaforte di parole e stereotipi, ma mettersi in gioco per il bene del proprio testo. Ho capito che pubblicare un libro è fatica, una splendida fatica da affrontare insieme a molte altre persone che spesso la pensano diversamente da noi (ed è questo uno dei punti più interessanti). Ho lavorato con un editor, Corrado Melluso, che è riuscito a smascherare tutte le mie “pigrizie autoriali”, aiutandomi a risolverle. Ho visto il mio testo crescere, migliorare, trovare la propria quadratura. Non è stato come me lo aspettavo, è stato meglio.

 

10) Cosa ti rimarrà, sopra ogni altra cosa, di questo tuo romanzo?

L’amicizia con il mio personaggio. I sorrisi divertiti delle persone che lo stanno leggendo. La nostalgia dei giorni in cui lo stavo scrivendo.


Elisabetta Pierini

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – settembre 2016 (con Sinatti) – INEDITO

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Elisabetta Pierini, classe ’64, vive a Fermignano e lavora presso l’università di Urbino come assistente tecnico chimico analitico. Estranea al mondo dei social network, madre di quattro figli, amante della bicicletta e divoratrice di libri, Elisabetta è senza dubbio un’esploratrice appassionata dell’animo umano. Il suo genuino interesse per la psicologia e per le tortuose pieghe della psiche pervade ogni pagina del suo romanzo, intitolato quasi fiabescamente L’interruttore dei sogni. Vincitrice della 29° edizione del Premio Italo Calvino in ex aequo con Cesare Sinatti, la Pierini ha dimostrato di sapersi addentrare con sensibilità e cognizione di causa nei tormenti di una famiglia disfunzionale e traballante, attraverso lo sguardo limpido e sognatore di una bambina come tante, eppure unica nel suo modo di affrontare la quotidiana infelicità.

 

1) Per parlare del tuo romanzo forse dobbiamo partire dall’ambientazione: perché hai scelto proprio un’anonima periferia urbana?

Ho pensato a un luogo senza volto, senza personalità, con case uguali come sono le zone residenziali dei paesi e delle piccole città in cui vivo, fatte di case a schiera con un giardino minuscolo, uguali alle altre per metratura e forma. Cambia solo il colore da una schiera all’altra. Queste case sembrano sancire un’esigenza di uguaglianza socio-economica che fa risaltare per contrapposizione la diversità della famiglia di Eva, la bambina della mia storia. Infatti, oltre alla ricchezza che sancisce il ceto sociale, esiste anche una ricchezza affettiva. E la malattia mentale, determinando l’impossibilità di stabilire legami, rappresenta lo zero assoluto in questa diversa scala di misura.

 

2) In questo “luogo senza volto” vive appunto Eva, la piccola protagonista del romanzo. È stato difficile immedesimarti in una bambina di dieci anni?

Ho quattro figli (il più piccolo di loro ha nove anni), ognuno con tutta una serie di amici che hanno frequentato e frequentano casa mia. Ma anche prima di avere figli, cioè prima di sposarmi, tenevo gruppi in parrocchia. In genere i miei romanzi non sono pensati a tavolino, direi piuttosto che nascono dal nulla. Sono partita dal primo capitolo, da lì piano piano si è materializzato il resto. Di solito faccio una prima stesura, che poi cambio completamente. Un romanzo è per me come un’arrampicata su una parete liscia di roccia. Ogni volta cerco nuovi appigli e non so mai quale strada prenderà la storia. In genere ci capisco qualcosa dopo due o tre stesure e a quel punto inizio a lavorarci usando anche la testa, cioè ragionando sui passaggi. In un primo momento invece la testa non mi serve. Perciò spiegare perché scrivo quello che scrivo non è facile. È vero che alcuni personaggi vengono da persone che conosco, però di solito faccio un frullato della realtà umana con cui sono o sono stata in contatto e ne riassemblo i frammenti. I fatti invece li invento quasi sempre. Non riesco a pianificare una storia a tavolino, non è nella mia natura e nemmeno riuscirei a scrivere un romanzo autobiografico. Non potrei farlo anche perché ho pochissimi ricordi. Ma soprattutto non mi interessa percorrere un’autostrada di scrittura, preferisco le strade bianche.

 

3) Sia Eva che sua madre Alma hanno un rapporto a tratti “falsato” con la realtà: quali sono le differenze tra il modo adulto e il modo infantile di rapportarsi con l’immaginario? E cos’è “l’interruttore dei sogni”?

La malattia mentale di Alma taglia il rapporto con la realtà di netto, rende impossibile un rapporto empatico e affettivo con le persone impedendo ogni comunicazione non verbale. La comunicazione verbale resta legata alla capacità della bambina di aderire alle allucinazioni e ai disturbi dell’ideazione della madre. Ma inseguire un rapporto dove non c’è possibilità di empatia è come inseguire un’altra illusione. I rapporti di Eva con il fratello immaginario e con “l’uomo con la valigia” sono rapporti più veri e ricchi di quello che ha con la madre. La bambola chiamata “la signora” è invece una proiezione della madre; ci racconta come la bambina vorrebbe che fosse sua madre, se riuscisse a occuparsi di lei. Pure questa proiezione però, come la madre vera, è incapace d’affetto. Così Eva, per compensazione, ha sviluppato una forte capacità di empatia, dovuta anche alla necessità di occuparsi dei suoi genitori. È piuttosto comune che in famiglie fortemente disturbate ci sia un ribaltamento dei ruoli e che i figli, anche molto piccoli, siano iper-responsabilizzati e “chiamati” a occuparsi dei genitori. Nell’immaginario infantile il sogno consiste nella fantasticheria a occhi aperti, un metodo veloce per evadere dalla realtà; nell’adulto il sogno a occhi aperti è sostituito dal desiderio. Mentre il sogno a occhi aperti serve al bambino a sopportare la realtà, il desiderio ha in sé l’esigenza del cambiamento, del sovvertimento, e spesso è illusorio. Mentre il bambino mette in atto strategie protettive, spesso l’adulto si suggestiona e si autoinganna. “L’interruttore dei sogni” è la capacità di chiamare il sogno in soccorso quando la realtà è insopportabile. È il fiammifero della piccola fiammiferaia che trasfigura le cose e crea l’oasi nel deserto. Il sogno di Eva è soprattutto un salvagente. Il fatto che sia un salvagente può far venire in mente che la bambina annegherà prima o poi, ma qualcuno potrebbe arrivare in tempo a salvarla. Il sogno fa sopravvivere, al momento presente. Poi non sta più al sogno fare il resto.

 

4) Quella di Eva potrebbe essere considerata una “storia di un confine”: racconta il confine tra la periferia e la città o tra la periferia e la campagna, il confine tra reale e irreale, il confine tra infanzia e adolescenza, il confine tra felicità e infelicità. Cos’è per te il confine?

“Confine”, “limite”… Sono parole che invitano all’oltre, al passo in più. Mi fanno pensare a quando si credeva che la Terra fosse piatta e che il mare finisse all’improvviso nel nulla. Quei pochi metri tra il mare e il nulla sono uno spazio ricchissimo. Il romanzo che sto completando ora è tutto scritto nella zona di confine. Del resto il confine tra reale e irreale è tracciato con il pennarello indelebile solo per chi è rigorosamente non credente e ha un approccio alla realtà mediato dai cinque sensi. Ma ci sono troppe cose non spiegabili con i cinque sensi e l’universo è pieno di mistero. Il mondo stesso degli affetti non passa soltanto per i cinque sensi. Mio padre, il giorno prima di morire, era perfettamente lucido e parlava con tutti noi delle solite cose, ma allo stesso tempo vedeva anche il fratello già morto, che gli ha spiegato per filo e per segno cosa c’è di là. Mio padre ci ha detto di avere capito tutto e di essere tranquillo. Eppure lui non era un credente ed era una persona molto razionale. E di sicuro non sapeva che sarebbe morto il giorno dopo.

 

5) Qual è il tuo personale “interruttore dei sogni”?

La lettura e la scrittura sono sicuramente un modo rapido per passare da un mondo all’altro. Io però non ho perso la capacità infantile di fare sogni a occhi aperti, lo ammetto con un po’ di vergogna.

 

6) Parlaci del tuo rapporto con la scrittura: hai avuto altre esperienze prima del Premio Italo Calvino?

 

La scrittura è sempre stata per me il Salvagente. È la stanza mentale che si trova nel punto di frontiera, sul confine tra felicità e infelicità, tra realtà e irrealtà, tra l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. È una stanza situata in una zona sospesa, in una zona pericolosa che in qualche modo riesce sempre ad ammortizzare miracolosamente gli urti con la vita e con la realtà, soprattutto quando la realtà si fa soffocante e ci fa vedere solo il muro di fronte. Se la Terra fosse davvero piatta, la scrittura sarebbe la stanza costruita nel punto esatto in cui finisce il mare, il punto esatto dove oltre non c’è più niente.

Tra le esperienze precedenti al PIC posso citarne due: RicercaBo è stata la mia prima incursione nel mondo letterario e Donne di Penna è stata l’occasione per rompere il ghiaccio e provare a parlare in pubblico di un mio romanzo. Ho sudato freddo in tutti e due i casi, ma sono state due belle esperienze, certo per me faticose.

 

7) E poi è arrivato il Premio Italo Calvino. Hai partecipato a più di un’edizione: raccontaci il tuo lungo percorso.

Ho mandato ben cinque manoscritti al PIC, perché desideravo confrontarmi con qualcuno del mestiere che potesse darmi un’idea della validità e dei punti deboli del mio lavoro. Le prime schede mi sono state utili per capire come correggere il tiro. Non ho rapporti con l’ambiente letterario e volevo dei consigli veri, professionali. Del resto con gli editori è impossibile parlare, ricevono troppi manoscritti. Ho smesso quasi subito di rivolgermi a loro, credo che solo Moresco sia riuscito a farsi rispondere da un editore.

Penso che la mia soddisfazione più grande sia stata la finale della 27° edizione del PIC, ottenuta con il manoscritto intitolato Notte. Quando Mario Marchetti (oggi presidente dei Premio) mi ha telefonato, stavo guidando e ho rischiato di andare fuori strada per l’emozione. La vittoria della 29° edizione poi è stata del tutto inaspettata; man mano che chiamavano i finalisti e il mio nome non arrivava, mi cresceva dentro la paura. Non so perché in quel momento mi ha preso il panico, mentre la volta precedente ero al settimo cielo. A casa poi ho letto i giudizi di Angelo Guglielmi e di Paola Capriolo, e ho pensato che anche se non dovessi mai trovare un editore, potrebbe benissimo bastarmi la soddisfazione delle parole gentili che mi hanno dedicato.

 

8) Cosa è cambiato dopo il PIC?

Per ora non ci sono stati né contratti né progetti, se non quello di cercare un editore per L’interruttore dei sogni e per Notte, che ho riscritto e a cui sono molto legata. Mi è stato detto che una casa editrice importante aveva prenotato “L’interruttore dei sogni” nei primi giorni dopo la premiazione, ma poi hanno cambiato idea. L’entusiasmo dell’editor di quella casa editrice per il mio romanzo mi ha fatto comunque molto piacere, anche se non ha portato a risultati concreti. Speriamo che prima o poi un altro editore si faccia avanti.

 

9) Tu sei cambiata dopo la vittoria?

Sono sempre io, incorreggibile. Non basta una vittoria a cambiarmi, anche se l’apprezzamento del Premio Italo Calvino per il mio lavoro ha significato moltissimo per me. Ero in un periodo della mia vita in cui avevo un estremo bisogno che qualcosa mi andasse bene. Io leggo molto, credo che sarei in grado di farmi un’idea della qualità di un romanzo anche dalla lettura di poche pagine. Ma su quello che scrivo io, navigo al buio. In genere non mi fido molto del mio giudizio. Mi fido solo se è negativo.

Comunque sarò sempre grata al PIC per la fiducia che mi è stata dimostrata. Il Premio è gestito da persone che conoscono alla perfezione il mondo letterario e sono tutti molto scrupolosi nel lavoro di selezione. Loro non guardano solo a ciò che è commerciale e a cui possono trovare facilmente un editore. Credo che ormai sia impossibile arrivare a una casa editrice senza il tramite di un concorso importante, soprattutto se non si scrive esattamente in linea con il gusto attuale. Certo, in tutto ci vuole anche la fortuna.

 

10) In chiusura te la senti di dedicare un pensiero a Cesare Sinatti, vincitore come te della 29° edizione del PIC?

Cesare è poco più grande dei miei figli; è un ragazzo intelligente e determinato che sta puntando molto sulla sua formazione culturale. Non posso dire di conoscerlo bene, spero che avremo modo di frequentarci e di frequentare insieme il mondo letterario. Lo vedo un po’ come il mio opposto. Lui quando inizia a scrivere deve avere tutto il progetto pronto e anche negli studi mi pare che abbia le idee molto chiare. Io invece sono il tipo che cammina sempre nel buio, che spesso non ha idea di dove andrà e cosa farà, guidata soltanto dalla luce fioca di una candela. Gli auguro di avere successo e di vivere tante esperienze interessanti.


 

 

Martina Renata Prosperi

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – novembre 2016  – INEDITO

Illustrazione di Davide Lorenzon

Può succedere a chiunque, in qua e là nella vita, d’imbattersi in persone particolari, persone che magari non fanno nulla di eccezionale, eppure sanno rendere speciale tutto ciò che fanno.

Martina, a soli ventiquattro anni, è senza dubbio una persona così.

Lunigianese per nascita e milanese d’adozione, ha scelto di dedicarsi alle lingue e alle culture dell’Asia orientale, approfondite e vissute attraverso svariati viaggi che l’hanno portata a vivere per un intero anno a Taiwan.

Ma la sua inesauribile passione non si limita certo allo studio: Martina coltiva mille interessi diversi, tra i quali la scrittura riveste un ruolo di primo piano. Lei scrive da sempre, fin da bambina. E si sente.

Il romanzo con cui ha partecipato alla ventinovesima edizione del PIC, intitolato semplicemente Branchia, ha infatti ottenuto una meritatissima menzione speciale della giuria. Il suo testo, affascinante e profondo, dimostra una rara conoscenza dell’animo umano, sostenuta da una sensibilità talmente matura da spiazzare il lettore.

Branchia, sospeso tra realtà e fantasia, sa incantare e stupire, perché ci racconta con intensità toccante ciò che si agita al di sotto della superficie.

 

1) Fin dalle prime pagine sono rimasta colpita dalla varietà delle tue conoscenze: botanica, religione, filosofia, medicina, psicologia, zoologia, musica… E chi più ne ha, più ne metta. Perciò mi viene da chiederti: chi è Martina Renata Prosperi?

Una persona curiosa. Durante l’infanzia sono stata molto indecisa su cosa fare “da grande”; ho avuto voglia di diventare mille cose diverse, dal carabiniere alla biologa, dall’astronomo alla ballerina. Non esisteva una professione che non mi incuriosisse almeno un po’. Alla fine ho scelto di studiare le lingue, che sono strumenti per ascoltare le infinite esperienze altrui. E ho scelto di provare a scrivere, che è un modo per essere a mia volta ascoltata – o per ascoltare me stessa –, per passare parola, per dialogare.

 

2) Possiamo definire Branchia un metaromanzo? Può essere letto come “un romanzo nel romanzo”, oppure no?

In realtà non si tratta di “un romanzo nel romanzo”, ma di un romanzo che si sdoppia, quasi fosse una creatura dotata d’ombra o un’immagine leggermente fuori fuoco. Ginevra e Luca, due dei protagonisti, si trovano infatti a raccontare una storia che non “possiedono”, nel senso che non l’hanno inventata né voluta loro, una storia (quella di Branchia, appunto) che gli viene affidata per caso – anzi, per fortuna. Ma i personaggi di questa storia – e fra loro c’è appunto il “ragazzo con le branchie” – sono figure tanto vere (e tanto fittizie) quanto quelle dei loro apprendisti scrittori e delle persone “reali” cui si ispirano. Le due trame – e i personaggi che si muovono all’interno di esse – non vanno intese come “contenitore” e “contenuto”, perché sono intrecciate in un rapporto di compresenza. Branchia non va letto come una combinazione di scatole cinesi che ammicca alla logica del lettore, ma come un gioco di specchi e di riflessi incongruenti.

 

3) Una delle possibili chiavi di lettura poggia le basi sul tema della diversità: Branchia, Giulia, Alessia, Ginevra… Che sia per le condizioni fisiche o che sia per lo stato psicologico in cui si trovano, in qualche modo i tuoi personaggi sono tutti dei “diversi”. E tutti, nessuno escluso, portano avanti la loro lotta quotidiana.

In effetti non avevo mai pensato alla “diversità” dei miei personaggi in quanto tale. Voglio dire, ogni “diversità” è diversa dall’altra, e del resto non credo che al mondo esistano persone non-diverse: il contrario di diverso è uguale, ma uguale a chi? Branchia non ha i polmoni, Giulia e Alessia hanno un cuore difettoso, Ginevra ha uno stomaco riluttante, ma le figure che si occupano di loro non sono meno imperfette, o se preferisci, “diverse”: lo psicologo di Branchia, la madre di Giulia e Gabriel, Luca e Ginevra, non sono più liberi – né più felici – del paziente, dei figli o dell’amica che vorrebbero aiutare. La domanda da porsi, forse, non è “chi è diverso?”, bensì “chi è libero?”.

 

4) Questa domanda forse ti sembrerà un po’ strana, ma devo fartela: cosa rappresentano per te le tartarughe? Spuntano fuori di continuo, tra le pagine del tuo romanzo.

Le tartarughe, come il “ragazzo con le branchie”, sono l’incarnazione dell’irrazionale. Sono un dato di fatto (la vita è di per sé assurda: l’intento delle tartarughe che depongono le uova è utopistico, istintivo, seguito senza logica – e senza amore) ma sono anche una preghiera: la preghiera che quell’esistenza possa comunque iniziare, che il senso si possa costruire, che l’amore si possa volere. In Branchia le tartarughe sono i ricordi di una favola che Marie ha ascoltato da bambina, ma sono anche i talismani di legno che Giulia e Gabriel ricevono in dono da un musicista di strada. Sono simbolo di longevità e di lungimiranza, di pazienza, di forza. Sono la capacità di spingersi oltre, di attraversare gli oceani del dolore, ma anche di lasciarsi catturare – nella lunga traversata – da una rete dorata di luce, di inattesa e fuggevole gioia.

“Quando le tartarughe depongono le uova, non depongono mille vite. Depongono mille possibilità.”

 

5) Tra tutti i tuoi personaggi, qual è quello che ti somiglia di più?

Branchia, non ho dubbi. Branchia che abita nel mondo, eppure è separato dal mondo. Branchia che osserva gli altri vivere, ma senza trovare il modo di partecipare alla vita. Branchia, che è lo specchio nel quale ogni personaggio si guarda riflesso. Branchia che somiglia a tutti e a nessuno. Branchia che vorrebbe appartenere. Branchia che invidia l’amore. Branchia che libera, e che uccide. Branchia che inizia da me – proprio mentre nuoto come lui, nel grembo freddo e azzurro di una piscina – e che da me si separa, incarnando estremismi e trasgressioni che non mi appartengono ma che ho vissuto attraverso la sua storia, come un percorso di espiazione e di catarsi.

 

6) Come è nato questo romanzo? E perché hai deciso di mandarlo al Premio Italo Calvino?

Il romanzo è nato da un’immagine-simbolo: quella del ragazzo con le branchie. L’immagine dell’imperfetto, del prigioniero, dell’orfano che non appartiene a nessuno, a cui non spetta alcun rifugio né alcuna legittimazione a esistere. L’idea ha cominciato ad abitarmi fra la fine del liceo e il primo anno di università, mentre finivo di scrivere un altro lungo manoscritto, che è stato un po’ la palestra dei miei esperimenti. Nell’estate fra il primo e il secondo anno di università ho frequentato un corso di scrittura narrativa; a settembre ho iniziato a scrivere. Ho scritto tutte le mattine – a volte soltanto per mezz’ora, altre volte per un’ora o due – prima di uscire di casa e iniziare la mia vita “vera”, compresi i periodi di esami, lauree, partenze, Pasqua, Natale e Capodanno. In certi giorni mettevo insieme una frase, un paragrafo, una pagina. In altri giorni invece non riuscivo a scrivere nulla, oppure cancellavo la parte scritta il giorno prima. Sono andata avanti così per tre anni. Alla fine ho deciso di inviare il testo al Calvino perché desideravo un riscontro, e perché Giulia desiderava vivere.

 

7) Cosa ti aspettavi dal PIC e cosa ha significato per te partecipare?

Mi aspettavo una lettura, una scheda di valutazione, un incoraggiamento o un gesto di diniego. Dato il numero dei partecipanti, non mi aspettavo certo di arrivare in finale, anche se naturalmente ci speravo. Volevo scoprire se la mia scrittura avesse un qualche valore. Quando Marchetti mi chiamò, io non risposi; mi trovavo a Taiwan ed era quasi notte, non sapevo chi fosse al di là della cornetta e non volevo accollargli il costo di un’internazionale. Me lo disse mio padre, poco più tardi, su Skype: “Ha chiamato un signore del Premio Calvino…”.

Confesso: cominciai a ballare in giro per la stanza.

 

8) Sei davvero sicura di voler vedere pubblicato questo romanzo?

Certamente, mi piacerebbe. Non tanto, o non solo, per “vederlo pubblicato”, quanto per avere l’opportunità di lavorarci con altre persone, per imparare dal lavoro di editing. Pubblicare Branchia sarebbe per me un punto di partenza, la dimostrazione che le mie parole possono arrivare agli altri e portare loro quell’amicizia che io stessa chiedo alle mie letture. In fondo, per avere qualcosa da dire bisogna anche avere qualcuno a cui dirlo; Branchia è un biglietto in bottiglia che affido al mare. Forse andrà perso, ma mi piace pensare che qualcuno, trovandolo, potrebbe sentirsi fortunato e potrebbe fermarsi a raccoglierlo, per leggerlo.

 

9) Promettici che scriverai ancora.…

Per ora non ho mai smesso. Che si tratti di poesia, di racconti o di progetti con più ampio respiro, scrivere è per me un’attività di igiene quotidiana, il mio modo di dare ordine alle cose, per relativizzare le difficoltà della vita “vera”. Inoltre, l’idea a cui sto attualmente lavorando ha pure lo scopo d’iniziarmi a un nuovo aspetto dello scrivere: sto imparando che la scrittura può essere un percorso conoscitivo, perché non è sempre vero che si scrive di ciò che si sa, ma si scrive anche di ciò che ci rende curiosi, vigili, vivi.


 

Eugenio Raspi

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

Eugenio raspi è nato a Narni, all’alba del fatidico ’68.

È un uomo pacato, sempre disponibile, riservato, molto legato al lavoro e alle abitudini quotidiane della sua cittadina. Vive nella casa di famiglia che ha ristrutturato e possiede un orto e un giardino che non cura, ma che – giura – renderà stupendi quando il percorso della sua esistenza si sarà assestato.

E c’è da credergli, se intende farlo con la medesima costanza che ha speso nella costruzione del suo primo romanzo.

Sembra strano sentir parlare di assestamento a quasi cinquant’anni d’età, ma Eugenio lo fa con ragione: dopo vent’anni di lavoro, è stato licenziato dall’acciaieria a cui ha dedicato tanta parte della sua vita e ora fa molta fatica a trovare una collocazione che sia in grado di valorizzare la sua lunga esperienza lavorativa.

Ma nulla va sprecato, se non ci si lascia vincere; così lui si è messo a scrivere, a raccontare quello che ha visto e quello che ha imparato in fabbrica. Ne è venuto fuori Inox, un romanzo che sa farsi leggere e che, a leggerlo davvero, ci mostra una realtà posta sotto gli occhi di tutti e che forse, proprio per questo, non sappiamo guardare come dovremmo.

 

1) Tu hai lavorato per più di vent’anni in un’acciaieria simile a quella del romanzo, in un ambiente sociale e lavorativo molto simile a quello del romanzo; nel tuo testo che rapporto c’è tra autobiografismo e finzione narrativa?

Inox non è un romanzo autobiografico. Ciò nonostante, i personaggi rispecchiano tante figure che ho conosciuto nell’ambiente lavorativo, valutate da un punto di vista sia professionale che umano; in effetti c’è qualcosa di me nel personaggio di Sergio Asciutti, ma solo perché sono stato anch’io caposquadra, non certo perché ho un fratello che è amministratore delegato di una grande azienda. Spero che Inox sia apprezzato per avere una trama fittizia che si basa su fatti che possiamo considerare reali, il tutto senza l’utilizzo di filtri. Dato che ho vissuto direttamente la fabbrica e le lotte per il mantenimento del posto di lavoro, ho cercato di rendere il lettore un osservatore privilegiato, calandolo in un contesto che tanti vedono ma pochi conoscono davvero. L’immaginazione, nel mio testo, risiede nel processo di scomposizione e ricomposizione di tante vite, fornendo loro quella dignità letteraria che trasforma le persone in personaggi. Ho cercato di creare uno stretto legame tra il linguaggio tecnico – descrittivo dei processi e degli impianti – e quello narrativo; reinvento la fabbrica accostandola a un immaginario che vive al di fuori del perimetro dello stabilimento. Faccio un esempio: nell’incipit paragono l’ingresso in fabbrica di un operaio a quello di un fedele in chiesa, stessi dubbi che derivano dal ripetere gesti e atti che man mano perdono di profondità. Ciò accade se in entrambi – operaio e fedele – si va perdendo la “fede” in colui che sta in alto: credere in ciò che si fa – o ti dicono di fare – è alle fondamenta della struttura sociale dell’uomo, sia riferito alla concretezza di un’organizzazione aziendale che alla sacralità di un rito religioso.

 

2) Raccontare senza dire: non è facile come sembra. Tu non scrivi mai il nome della città in cui hai ambientato il racconto, ma la descrivi e la lasci intuire, a partire dal nome e cognome dell’acciaieria.

È un vezzo che dapprima ho utilizzato per sentirmi più libero nelle descrizioni; in seguito mi sono accorto che questo tipo di approccio dava un più ampio spessore alla fabbrica e alla città che, grazie ai contorni sfuocati, risaltavano ancor più. Non volevo che Inox si presentasse come il solito libro che parla di una realtà locale escludendone altre. I temi che affronto sono priorità di tanti territori; da Nord a Sud, in Italia gli operai parlano lingue diverse – molto spesso anche differenti dall’italiano – ma nutrono sentimenti che si possono riunificare nel comune desiderio del diritto al lavoro e della dignità nel ricoprire il proprio posto e la propria mansione. Le acciaierie di Terni che descrivo sono le tante fabbriche e le tante città che soffrono la crisi; il chiaro riferimento alla “mia” fabbrica e alla “mia” città viene fuori “a distanza”; non sottolinearlo fin da subito innalza entrambe a simbolo. O almeno spero che ciò accada, proporzionalmente all’efficacia del mio romanzo nel raccontare il particolare mondo del lavoro che ho vissuto. Credo che le descrizioni puntuali e vivide costituiscano un pregio del mio scritto. La forza descrittiva dell’ambiente in cui si muovono i miei personaggi è stata una nota di pregio che mi è arrivata direttamente dai lettori del Premio Italo Calvino, non solo attraverso il riconoscimento acquisito: con alcuni di loro ho avuto il piacere di discuterne dopo la finale, raccogliendo i loro apprezzamenti. Sono stati loro, in effetti, a identificare in questa caratteristica uno dei punti di forza del mio romanzo.

 

3) Cos’è la fabbrica? Più nello specifico: cos’è “Acciai Speciali”?

L’ho raccontata in Inox come meglio ho potuto. Sia la generica fabbrica, quale contenitore che trasforma i materiali utilizzando il lavoro delle persone allo scopo di ottenere un prodotto, sia la “Acciai Speciali”, che partendo dagli scarti di rottami ferrosi riproduce lamiere luccicanti che vanno sparpagliandosi per il nostro paese, raggiungendo ogni persona, di qualsiasi estrazione sociale o zona geografica; molti, in modo inconsapevole, lo toccano concretamente con mano, l’acciaio che esce dalle pagine del mio Inox. Mi sono focalizzato nel cuore produttivo dello stabilimento, i forni, con l’acciaio liquido che viene fuso e rilavorato. Io ho vissuto altre realtà, attigue a quelle che narro e non meno strategiche. Sono stati anni di pane e acciaio, in cui ho accumulato esperienza sul campo, confrontandomi con i vari livelli delle maestranze; sono partito dal basso e nel romanzo ho voluto mantenere questo livello di osservazione, l’ho ritenuto il più efficace. Nel mio libro c’è descritto un paese popolato da tremila anime che notte e giorno si apprestano a svolgere le loro funzioni, che devono porre da parte, una volta varcati i cancelli dello stabilimento, il loro essere persone con differenti problematiche o aspirazioni per assoggettarsi a ciò che la fabbrica ti chiede: fare e non pensare. Me lo sono sentito ripetere più volte in tanti anni, fino a che, una volta uscito da quella realtà, ho deciso che “pensare di fare” è alla base della riuscita di qualsivoglia progetto che si vuol portare a compimento. In questo caso specifico, si è trattato del mio romanzo.

 

4) La realtà operaia di oggi: il passaggio dalle lotte per i diritti dei lavoratori alle lotte per il mantenimento del posto di lavoro, tra nuove tecnologie e rischio costante di acquisizioni. E i sindacati? Quanto sei stato fedele alla realtà nel tuo romanzo?

La sincerità è alla base di tutto. Sono stato fedele alla mia idea di fabbrica e di ciò che vi ruota attorno, l’ho esposta senza dubbi o incertezze, schierandomi dalla parte di chi affronta le otto ore lavorative con lo sguardo su di un forno, dove si realizza materialmente il prodotto. Leggendo le pagine di Inox il lettore si farà la sua idea, il mio intento è di stimolare la riflessione e, perché no, un eventuale confronto o discussione, perché altri potrebbero avere una visione differente dalla mia, a partire dal ruolo dei sindacati, a mio avviso rimasti per proprie colpe – ma non solo – a margine del processo di mutazione che ha subìto la grande industria italiana, sempre più in mano a organizzazioni globali che non hanno altro da salvaguardare se non i rendiconti o i dividendi dei loro soci finanziatori.

Ognuno, dopotutto, sceglie il proprio punto di vista, anche se poi conta la realtà dei fatti. Uscendo dal contesto, se io e te fossimo davanti allo stesso acquario, ma su due lati opposti, fissi in un punto, ti provocherei dicendo che i fatti sono i pesci che nuotano e che noi osserviamo. Se i pesci fossero immobili, ognuno di noi due vedrebbe solo il lato esposto verso di sé. Se ci chiedessero di descriverli, riporteremmo ciò che osserviamo, nulla può assicurarci che il lato che ciascuno vede sia identico a quello di chi sta dall’altra parte della vasca di vetro, io potrei osservare il lato malsano e tu quello sano. Stesso pesce, diversa visione. È quasi un paradosso, perché i pesci non restano fermi, nuotano e si spostano, offrendoci nel tempo la possibilità del confronto. Quindi, ritornando alla domanda, la percezione della realtà che racconto è avvalorata dal lungo tempo di osservazione. In fabbrica ci ho vissuto ventuno anni, credo di essermi fatto un’idea ben chiara dei vari pesci – personaggi – che la popolano, e come tale l’ho voluta trasmettere al lettore.

 

5) Tra tutte le storie che tu – come tutti – ti porti dentro, hai scelto di scrivere proprio questa. Perché?

Volevo dare voce alla fabbrica, una sorta di omaggio alla sacralità del lavoro. Sapevo di certo cosa non volevo scrivere: niente che legasse il mio romanzo a morti dolorose di operai sul posto di lavoro, accostamenti troppo netti con persone che hanno subito vicende giudiziarie, pure eclatanti. Volevo raccontare una realtà che non si ciba della voglia di attualità e di cronaca da pomeriggio in TV, ma del sentimento che accompagna persone normali alle prese con decisioni che possono far perdere il lavoro o costretta ad accettare compromessi che magari non ti annientano, però ti fanno perdere la fiducia nelle regole del vivere civile. Perché l’ho scritto? Il passato di ognuno di noi nasconde rabbia, amore, odio, rimpianto. Inox fa parte del mio passato perché l’ho scritto due anni fa, ma è anche è il mio presente perché è uscito in questi giorni in libreria. E spero sia pure alla base delle mie prospettive future, quindi dentro ci sono tutti i sentimenti appena elencati che mi legano al mio trascorso. Mi è costato anni di scritture, di attese silenziose, per poi ottenere i primi riconoscimenti. Potranno confermarlo i lettori se davvero è valsa la pena attendere tutto questo tempo.

 

6) Tu, questo romanzo e il Premio Italo Calvino: raccontaci i momenti salienti del percorso. E detto tra i denti: c’è qualcuno tra i tuoi conoscenti a cui oggi vorresti “sbattere in faccia” il tuo Inox?

È doveroso ringraziare le persone che hanno creduto in me, nella mia storia, nel modo in cui l’ho voluta raccontare. Lo scrittore Giovanni Cocco (con La Caduta, edito da Nutrimenti, è stato finalista al Campiello nel 2013) è stato in assoluto il primo a leggere Inox, a valutarlo e a indirizzarmi nella giusta direzione, sia per quanto riguarda il testo, sia per i consigli sulla strada da scegliere per vederlo accettato e valorizzato. Devo ai suoi suggerimenti la mia partecipazione al Premio Italo Calvino. Ne conoscevo già la fama, e proprio per questo ne ero intimorito. Non ero pronto a sentirmi dire “no”, volevo aspettare. È stato lui a incoraggiarmi, portandomi a credere nella bontà del giudizio che sarebbe uscito dal Comitato di lettura. Ha avuto ragione in pieno.

Non posso negare che il giorno della finale ero soddisfatto di essere uno dei nove, ma allo stesso tempo speravo nel massimo; nell’attesa di conoscere il piazzamento, mi sono però concesso di dare una sbirciata alle parole di giudizio sul testo, la famosa scheda di valutazione, mentre il presidente Mario Marchetti ci informava su come si sarebbe svolta la cerimonia. Ne sono rimasto soddisfatto, allora come oggi, mi ha aiutato a rendere il mio lavoro ancora più incisivo. Vedere il proprio nome legato al Calvino è una conquista che nessuno potrà mai togliermi. Ci provassero!

A stretto giro di posta è arrivato il momento di veder crescere il mio “figlioccio”, di fargli muovere i primi passi nel mondo letterario. È accaduto per merito di Corrado Melluso, della Baldini&Castoldi, ha creduto fermamente e da subito nel romanzo, elogiandone contenuti ed esposizione. Nelle pagine finali del libro lo ringrazio, dicendo che le mie parole erano al buio e lui le ha portate alla luce. Ecco, se banalmente paragoniamo la pubblicazione a una nascita, Inox ha me come padre, ma per quanto riguarda i medici in sala parto ne ho da indicare due: Giovanni e Corrado.

Ps: i romanzi non si sbattono in faccia a chicchessia, meno che mai il proprio. Però non nascondo che, dopo aver subito scelte ingiuste, saprei individuare qualcuno che si meriterebbe un sonoro “richiamo” alla correttezza.

 

7) L’esperienza della pubblicazione: cosa hai imparato del mondo dei libri?

Che bisogna avere pazienza. La pubblicazione necessita di tempo. In fabbrica, mia unica (seppur pregnante) esperienza lavorativa, i ritmi sono sempre stati sostenuti. Nell’universo letterario gli orologi battono un tempo tutto loro. Dopo dieci giorni dall’uscita di Inox mi sembra che ogni cosa si stia svolgendo al rallentatore. Meglio così, forse, perché la lentezza rende ancora più apprezzabile ogni emozione – una buona recensione, un articolo che mi riguarda o le semplici parole di chi incontro e sta leggendo o ha letto il romanzo – mi donano una gioia molto diversa da quella provata grazie ai piccoli traguardi professionali raggiunti nella mia “prima” vita lavorativa. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i professionisti che lavorano per la mia casa editrice, perché ho avuto l’ulteriore fortuna di sperimentare che in Baldini&Castoldi si respira un’aria a misura di autore, a partire dalla vitalità dell’ufficio stampa. Chiara Moscardelli e Anna Manfredini mi stanno aiutando moltissimo a districarmi nel difficile settore delle pubbliche relazioni, aspetto non secondario per veder apprezzato il proprio romanzo, ma allo stesso tempo tanto distante dalle mie corde emotive; sono una persona molto riservata, con una naturale propensione all’isolamento, che si sente a disagio in ambienti che non conosce. Loro, al contrario, sono una vera forza della natura.

 

8) Cosa desideri per la tua vita futura e quali sogni continui a coltivare?

Non scherziamo coi sentimenti. A scrivere non rinuncio. Così come all’idea che ci sia un’azienda in Italia che possa avvalersi dei miei servigi, come si diceva un tempo, pur se mi appresto a superare i cinquant’anni. In attesa di una chiamata, sto approcciando una nuova storia, per non perdere il vizio; mi rimane – anzi è aumentato – il proposito di dare visibilità a ciò che credo meriti di essere raccontato. Se avrò una seconda opportunità, di certo non mi discosterò dai temi che riguardano le persone e questi tempi di crisi: il lavoro, la famiglia, la necessità di modificarsi per non svilire le opportunità. Magari stavolta osserverò la fabbrica dall’esterno, come sta accadendo dopo il mio licenziamento. E può essere che la osservi con gli occhi di chi in fabbrica non c’è mai stato e mai vorrà entrarci.