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Simona Rondolini

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – gennaio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Simona Rondolini è nata nel 1970 a Perugia, dove vive tuttora. Si è laureata in Filosofia, qua e là ha scritto racconti e fino al 2010 ha lavorato nell’attività commerciale di famiglia. Quando ha ripreso a scrivere, ha terminato un romanzo dormiente e l’ha inviato alla 26° edizione del Premio Italo Calvino, ritrovandosi finalista con tanto di menzione speciale della Giuria. Il romanzo è stato pubblicato da Elliot nel 2014 con il titolo Dovunque, eternamente e l’anno successivo è stato segnalato alla 27° edizione del Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo.
Nell’agosto del 2016 ha pubblicato La stanza di Amelia, di nuovo con Elliot.
Quando non scrive legge, ascolta musica, corre o cammina, accarezza gatti raramente consenzienti, va al cinema e sforna muffin. Gli unici profili che ha sono il destro e il sinistro. Non ha uno smartphone e si ostina a preferire i romanzi alle serie tv.

1) Partiamo subito dalle tue protagoniste: Olga e Laura da una parte, Amelia e Rosalia dall’altra. Due romanzi, due storie di rapporti contrastanti tra madre e figlia.

In Dovunque, eternamente la bellissima Olga, razionale e controllata, agli occhi della figlia Laura rappresenta tutto ciò che lei non riesce a essere. In realtà, Olga deve lottare costantemente contro le proprie imperfezioni e la propria emotività: quando le riconosce in sua figlia, non sa fare altro che rimproverarla e allontanarla da sé. Anche nel nuovo romanzo, è come se Rosalia e la madre Amelia per definire se stesse dovessero essere ognuna il contrario dell’altra. Così non vedono ciò che invece le accomuna: la passionalità, l’impulsività, l’impazienza del desiderio. In effetti, queste madri e queste figlie sono molto più simili di quanto credano, ma se ne rendono conto solo quando è troppo tardi.

Non si può negare, nei tuoi due romanzi le donne hanno sempre un ruolo di primo piano, mentre agli uomini, sebbene fondamentali per l’intreccio narrativo, riservi spesso ruoli secondari.

 

2) Anche se protagoniste sono le donne, dal loro punto di vista gli uomini (Luigi, il padre di Laura nel primo romanzo ed Ettore, l’amore di Amelia nel secondo) sono enormi.

Solo che la loro è un’enormità dell’assenza e della nostalgia: è il loro non-esserci a proiettare ombre lunghissime, quasi schiaccianti, sulle vite delle protagoniste. Ne La stanza di Amelia, ad esempio, è proprio l’uomo più fragile (Tommaso) a imprimere una svolta alla storia, ritrovando il quaderno in cui Amelia ha scritto i suoi segreti, scoprendo così ciò che lei ha taciuto per tutta la vita.

 

3) In entrambi i romanzi hai affidato all’arte un compito espressivo di grande rilievo: la musica è quasi co-protagonista in Dovunque, eternamente mentre la scrittura diventa una seconda voce ne La stanza di Amelia.

Se non mi fosse capitato di ascoltare la Nona di Mahler dal vivo e di innamorarmene, la musica probabilmente non avrebbe avuto un tale peso nel mio primo romanzo. Volerne scrivere senza averla mai studiata è stata quasi una forma di autolesionismo, ma nello stesso tempo credo che senza quell’ascolto ossessivo di Mahler (poi di Schubert e Bach) non sarei riuscita a finire il romanzo: una cosa nutriva l’altra, non so bene come. Per quanto riguarda Amelia, inizialmente la vedevo come una figura di sfondo. Poi ho sentito la sua voce in prima persona ed è stato inevitabile immaginare che si trattasse di parole scritte su un quaderno, di notte, nel chiuso di una stanza. All’invadenza di Mahler ho ceduto subito, contro quella di Amelia ho combattuto a lungo.

 

4) Come hai gestito la costruzione dei personaggi?

Non ho una regola precisa. Di rado i personaggi si presentano sotto forma di voce netta e imperiosa, come Amelia. Più spesso capita che la voce sia parte di un dialogo, come nell’incipit del mio primo romanzo; allora comincio a costruire il personaggio da lì. Oppure può trattarsi di un ragionamento del personaggio, di un suo pensiero ricorrente, o di un tic verbale che suggerisce qualcosa di importante su di lui: per esempio, il “finiscila, stupida” di Amelia rivela l’asprezza del suo carattere. Rosalia invece è nata da una frase lapidaria: “Rosalia è una cattiva madre”. Spesso costruisco un personaggio a partire da una sua abitudine magari bizzarra, come ho fatto con Laura, che cammina seguendo le persone in strada, o con Tommaso che colleziona oggetti buttati via dagli altri. I miei personaggi dicono di me tutto e niente, forse, ma non vorrei saperlo con precisione. Mi sembra che la scrittura migliore accada quando vita e scrittura si intrecciano in modo misterioso, senza che chi scrive ne abbia troppa consapevolezza.

 

5) Tema fondamentale: la famiglia, i suoi valori e la crisi dolorosa che emerge dalle tue storie.

Scrivo spesso di famiglie perché comunque è lì dentro che cominciamo a costruirci come persone. Sia la famiglia di Laura nel primo romanzo, sia quella di Rosalia nel secondo, sono in apparenza perfette, ma nascondono segreti e malfunzionamenti profondi; anche qui, come spesso accade, più vengono negati e più si ingigantiscono. Verso la fine de La stanza di Amelia, invece ho voluto raccontare una famiglia slegata dai ruoli tradizionali, un nucleo d’affetti insolito eppure accogliente, rispettoso dell’identità di ciascuno.

 

6) L’amore e i suoi vari volti, uno per ogni donna, ma forse anche uno per ogni uomo dei tuoi romanzi.

Nel primo romanzo, l’unico amore di Laura è quello senza speranza che prova per il padre. Il mondo in cui vive Luigi è troppo in alto perché Laura possa abitarlo insieme a lui, nonostante condividano la passione per la montagna e per la musica, nel breve tempo a disposizione prima che il loro rapporto si interrompa tragicamente. Ne La stanza di Amelia, l’amore di Amelia per Ettore è invece molto carnale: il desiderio irrompe nella sua vita come una febbre del sangue; lei in un primo momento si lascia travolgere; in seguito però, a causa di un evento tragico, sceglie di ritrarsi e sarà proprio questa negazione del desiderio a condizionare la sua vita successiva. Anche Rosalia è spinta – lei fin da giovanissima – a cercare gli uomini, come se la madre le avesse trasmesso la sua stessa malattia. Al contrario di Amelia, Rosalia accoglie il desiderio e lo usa consapevolmente per dare e ricevere piacere. Tuttavia è costretta a metterlo alla prova con uomini sempre nuovi, nell’illusione di ritrovare l’incanto della prima volta o, forse, di tenere a bada l’angoscia.

 

7) Che rapporto hai con i tuoi due romanzi?

Scrivere Dovunque, eternamente è stato difficile; la musica era un problema ma anche una fonte di ispirazione, una guida, un sollievo dalle troppe parole. L’ho terminato per me stessa, senza avere niente da perdere. Invece poi, quando ho ripreso a lavorare su La stanza di Amelia dopo la pubblicazione del primo romanzo, ho sentito subito il peso delle mie aspettative e una sorta di frenesia nel voler superare il vuoto lasciato dall’altro libro; questo l’ha reso molto faticoso da scrivere. Amo moltissimo Dovunque, eternamente, non solo per le parole e le persone che racchiude al suo interno, ma anche perché ha l’irripetibile magia della prima volta. Però amo ancora di più La stanza di Amelia, come farebbe un genitore con un figlio un po’ goffo che sconta il confronto con un ingombrante fratello maggiore.

 

8) Raccontaci qualcosa della tua avventura con il Premio Italo Calvino.

Avendo scritto per molto tempo di nascosto o quasi, quando ho terminato il primo romanzo ho avvertito subito l’esigenza di sottoporre le mie pagine a uno sguardo esterno, neutrale. In quel momento essere giudicata mi sembrava più urgente che essere pubblicata. Le schede di valutazione che il Premio Calvino invia a tutti i partecipanti, e il fatto che i manoscritti vengano esaminati da molti Lettori, mi hanno convinto a partecipare. Arrivare in finale è stata una sorpresa bellissima ma piuttosto terrorizzante, come se avessi messo in moto qualcosa di troppo grande senza rendermene conto. Alla fine, sapere che avevo vinto “solo” una menzione speciale della Giuria e non il Premio, è stato un vero sollievo!

 

9) Come sei arrivata alla pubblicazione del primo romanzo?

Dopo la premiazione, niente poteva più stupirmi. Così ho reagito con relativa tranquillità alla proposta di pubblicazione. Più traumatico è stato il primissimo impatto con l’editor, il quale mi ha messo di fronte alla necessità di riscrivere l’ultima parte del romanzo. Sul momento mi pareva impossibile, oltre che ingiusto. Mi sbagliavo completamente. Non ho mai vissuto un’esperienza tanto stimolante come quella riscrittura e quell’editing. Ho imparato che mettere in discussione ciò che si crede immutabile può mostrare vie più difficili, ma forse più autentiche. E che per ottenere maggiore chiarezza non serve aggiungere parole, piuttosto bisogna toglierne qualcuna.

 

10) Con il secondo romanzo com’è andata?

Dopo la pubblicazione del primo romanzo pensavo ingenuamente di potermi servire dell’esperienza precedente. Invece con La stanza di Amelia mi sono trovata a dover ricominciare da zero, con un senso di inadeguatezza perfino maggiore e una gran solitudine. Temo che ogni tentativo di scrittura sia unico e diverso; ogni volta si deve imparare di nuovo tutto daccapo. E quindi continuerò a provarci.

 


 

Carmela Scotti

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – dicembre 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Nata a Messina nel 1973, Carmela Scotti è una donna dalle mille sfaccettature che passa con disinvoltura dal pizzo chiacchierino alla cronaca nera, senza disdegnare profumate incursioni nel mondo della pasticceria. All’età di diciotto anni se n’è andata di casa per trasferirsi a Palermo, dove si è mantenuta facendo un’infinità di lavori, dalla commessa alla bibliotecaria, dall’insegnante di fotografia in una struttura per disabili mentali all’operatrice telefonica per le vecchie linee erotiche 166. Oggi è una splendida neomamma che vive in Brianza e che lavora per i settimanali Cronaca Vera e Tu Style.
Il suo primo romanzo ha meritato l’ingresso nella rosa dei finalisti nella 27° edizione del Premio Italo Calvino, piazzamento che l’ha condotta fino alla pubblicazione con Garzanti, all’interno della collana Narratori Moderni. Con L’imperfetta, Carmela ci trascina in un mondo arcaico e misterioso, capace di grande dolcezza e di opprimente violenza, raccontato con un linguaggio potente e sincero che, in un modo o nell’altro, sa lasciare il segno sulla pelle dei lettori.

N.d.R.: Sempre per Garzanti, è uscito a marzo 2018 il suo secondo libro Chiedi al cielo.

1) Iniziamo subito da lei, Catena, la tua protagonista: chi è? E perché è “imperfetta”?

Catena è la rappresentazione vivente dell’infanzia e dell’adolescenza negata, della forza titanica che nasce dalla consuetudine con il dolore. Catena è un’adolescente che lotta per non essere sopraffatta dalla brutalità del mondo adulto, che resiste, cercando di rivendicare il suo diritto di sognare, di amare, di sperare che possa esistere un lieto fine al di là del territorio minato della sofferenza in cui si svolge la sua esistenza. Catena è “imperfetta” perché è una donna nata “storta”, cresciuta “storta”, una ragazza “selvaggia” come la natura in cui si muove, ma indomita, nonostante tutto, perché sa che il suo eterno andare, il suo cadere e rialzarsi quotidiano, rappresentano un percorso di crescita che la porterà a costruire un ponte verso il futuro, a lasciare nel mondo un segno del suo passaggio, una possibilità di riscatto e di guarigione dalle ferite che la vita non le ha risparmiato.

 

2) Come hai creato il mondo di Catena, sospeso tra magia, contatto con la natura e tradizione popolare?

Catena vive in un mondo arcaico, fondato su un legame profondo con una terra magica e complessa qual è la Sicilia. Nel suo viaggio Catena si porta dietro un bagaglio di conoscenze legate principalmente alla medicina popolare ed è grazie a quel bagaglio che riesce a sopravvivere a ogni vicissitudine, ricordandoci in ogni momento che la Natura può essere una magnifica compagna di viaggio, madre ma anche matrigna, generosa quanto crudele. Quando nella mia mente ha preso corpo la trama del romanzo, è arrivata immediata l’idea di ambientarlo in Sicilia, la terra nella quale sono nata e alla quale ritorno ogni volta che una storia “mi frulla in testa”. Credo che la Sicilia, con le sue mille contraddizioni, sia una terra profondamente “letteraria”, abbagliata da un sole potente e segnata da ombre nerissime, da leggende magiche e “stregonesche” che la rendono irresistibile. Nascere e crescere in Sicilia implica inevitabilmente una consuetudine con le tradizioni e le credenze popolari. Una mia vicina di casa, per esempio, metteva e toglieva il malocchio a chiunque le chiedesse aiuto, ed era anche un’esperta nella lettura del futuro dentro alle tazzine del caffè. Ricordo che passavo ore a guardarla, ad ascoltare le storie che quei rimasugli limacciosi sapevano raccontare…

 

3) Il cuore centrale del tuo libro può essere riassunto in due parole: “violenza” e “famiglia”. È un binomio terrificante eppure sempre presente, dalla notte dei tempi ad oggi.

Oggi, come ieri, la violenza in famiglia è rimasta una spaventosa costante che accomuna epoche e aree geografiche lontanissime tra loro, come un virus che resiste ad ogni cura e che contamina tutto e tutti. L’idea che il male cresca e prolifichi all’interno della famiglia, proprio in quel nido deputato a proteggere e accogliere, mi ha sempre fatto molta impressione (a maggior ragione adesso, che a me – in quanto madre – è affidata la cura di un altro essere umano) e per questo ho deciso di affrontare il tema nel mio romanzo, mostrando quali conseguenze terribili possa generare una violenza covata ed esplosa nel recinto familiare, e quali, e quante, ferite laceranti gli abusi possano aprire sulla pelle e nel cuore di un’adolescente.

 

4) Due delle caratteristiche più evidenti del tuo testo sono la potenza espressiva e la crudezza delle immagini. Perché, tra tutte le modalità possibili, ne hai scelta una tanto violenta per raccontare questa storia?

Le storie “dure” sono sempre molto complicate da gestire, sia per chi le scrive sia per chi le legge. Ma credo anche che, se raccontate nel modo giusto, sappiano lasciare nel lettore un segno profondo e fecondo; è un po’ come piantare un “seme” e aspettare che qualcosa spunti dal terreno. Se ho deciso di affrontare certe “tematiche” è perché le ho sempre sentite “vicine”, ne conosco modalità e linguaggio da quando, malauguratamente, sul mio cammino ho incontrato una persona che mi ha mostrato il lato più “feroce” del mondo adulto. Dopo quell’esperienza, nella mia vita sono cambiate tante cose, alcune sono andate perse e altre si sono rafforzate, ma di sicuro non ho mai permesso ai brutti ricordi di prendere il sopravvento. La mia forza di volontà è diventata quella di Catena, insieme alla convinzione che valga sempre la pena andare avanti. Solo così ciò che all’inizio è “sopravvivenza” può diventare una strada percorribile per cominciare a “vivere” davvero.

 

5) Il periodo storico in cui vive Catena presenta molti tratti tipici dell’Ottocento, sebbene in qua e là la collocazione temporale della storia assuma sfumature diverse che rendono difficile un’esatta collocazione della vicenda. Come mai questa sorta di commistione temporale?

In realtà, più che in un periodo storico preciso, mi piaceva che la vicenda di Catena si svolgesse in un passato arcaico, selvaggio e oscuro, un luogo che fosse l’equivalente geografico dell’animo di Catena, il riflesso, l’eco e l’origine delle sofferenze da lei vissute e della sua voglia di riscatto. Per questo mi sono concessa delle libertà rispetto alla coerenza storica, introducendo (soprattutto nel finale) elementi che sembrano provenire da altre epoche e che cancellano i recinti della storia, conducendoci in una fiaba nera che si allarga e si gonfia al di là del tempo e dello spazio.

 

6) Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento?

Ho sempre letto moltissimo e questo amore per la lettura è stato fondamentale in tutto il processo creativo che ha preceduto la stesura del romanzo. I miei modelli letterari di riferimento sono molteplici, proprio perché il mio amore per la letteratura non conosce, per fortuna, recinti e confini: di recente ho scoperto – e amato alla follia – la Sicilia magistralmente raccontata da Dacia Maraini ne La lunga vita di Marianna Ucria, così come ho amato il Curzio Malaparte de La pelle, o il Dino Buzzati di Un amore. Ho poi una passione viscerale per Victor Hugo, Joyce Carol Oates, Stephen King, Truman Capote, Richard Yates, Joseph Conrad, Cormac Mccarthy, e per le “storiacce sanguinolente” di cronaca nera. Non per nulla collaboro da anni con il settimanale Cronaca Vera.

 

7) Parlaci del percorso del tuo libro: è stato difficile scriverlo?

Il nucleo del libro ha preso forma da un fatto doloroso, la morte di mio padre, e dalla necessità di trasformare un lutto in qualcosa di “vivo”, in una vicenda che se ne andasse in giro sulle proprie gambe per lasciare un piccolo segno nelle vite di chi decidesse di ascoltarne la voce. Mentre il romanzo prendeva forma nella mia testa, ho cercato di capire come, e se fosse possibile, rendere “dolce” il dolore che sentivo, e ho capito che l’unica strada percorribile era trasformare quel dolore in parole, nella storia d’amore tra un padre e una figlia. All’inizio lavorarci è stato doloroso, soprattutto quando dovevo descrivere la malattia del padre di Catena, ma poi mi sono resa conto che il dolore si diluiva man mano che andavo avanti nella stesura, fino a diventare un pensiero non più lacerante ma “dolce”, dalle punte smussate.

 

8) Perché alla fine hai inviato L’imperfetta al Premio Italo Calvino?

Prima del Calvino, ho mandato il romanzo ad alcuni agenti letterari nella speranza che potesse raggiungere il traguardo della pubblicazione, ma ho sempre e solo ottenuto porte in faccia o suggerimenti velati a “lasciar perdere”. Devo dire, a onor del vero, che alcuni consigli ricevuti da parte di qualche agente letterario mi sono serviti per modificare le parti della storia che non funzionavano, e quando ho ritenuto che la storia fosse pronta l’ho spedita al Premio Italo Calvino, naturalmente senza alcuna speranza che venisse preso in considerazione, men che meno che arrivasse nella rosa dei nove finalisti.

 

9) Cosa ti ha dato il PIC e cosa ha significato per te parteciparvi?

Come dico sempre, arrivare in finale al Calvino è stato come trovare l’ultimo biglietto dorato per entrare nella fabbrica di cioccolata di Willy Wonka. Per me, che mi sono sempre dedicata, anche per lavoro, a una attività tanto “solitaria” come quella della scrittura, trovarsi a contatto con tanta altra gente che condivide la passione per le “strade di carta” è stata un’esperienza corroborante, che mi ha rigenerato e regalato un confronto prezioso con altri punti di vista, altre idee, altri modi di vedere, leggere e scrivere il mondo. Dopo il Calvino, ho ricevuto diverse proposte di pubblicazione da parte di alcune case editrici, ma quando ho conosciuto la meravigliosa Elisabetta Migliavada, direttrice della narrativa Garzanti, non ho avuto più dubbi sulla direzione da prendere.

 

10) Adesso che il tuo romanzo è stato pubblicato, che effetto ti fa vederlo lì, concreto, tra le tue mani? Lo senti ancora tuo ora che chiunque può leggerlo?

Vedere il romanzo vestito “a festa”, impaginato, “copertinato” e pronto ad andarsene in giro sulle proprie gambe è stata un’emozione fortissima, di cui ancora oggi, nonostante siano passati parecchi mesi, non mi rendo bene conto, come se fosse un sogno dal quale mi posso dolorosamente svegliare per scoprire che niente di tutto questo è successo davvero. Adesso che L’imperfetta è stato pubblicato, lo sento mio più che mai, perché si è nutrito dei commenti, delle recensioni, delle risposte dei lettori, diventando un organismo “vivente” che cambia, si arricchisce, muta pelle, respira, insegna (e mi insegna) ogni giorno cose diverse, a seconda di chi lo legge e di quello che ha provato davanti alla storia di Catena. Non temo nulla per L’imperfetta, prima di tutto perché ho lasciato Catena a guardia delle pagine, e poi perché so di aver dato al romanzo gambe solide sulle quali reggersi e con le quali affrontare i giudizi dei lettori. Nonostante l’apparente “durezza” del romanzo, sono fiera di aver dato corpo e voce al personaggio di Catena e alla sua voglia di vivere, che spero contagi tantissimi lettori.

 


 

Cesare Sinatti

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – settembre 2016 (con Pierini)

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Cesare Sinatti è un giovane uomo dallo sguardo dolce e dal sorriso discreto, laureato in Scienze Filosofiche e attualmente dottorando in Filosofia Antica all’università di Durham. La passione per la filosofia antica, che ancora domina le sue scelte di vita, lo ha condotto fino a Chicago, dove ha vissuto e studiato per un intero anno.

Stupisce che un venticinquenne si dedichi con tanta tenacia a una branca così lontana da quelli che sono i più comuni interessi attuali; stupiscono il linguaggio, l’intensità e la forza della sua scrittura, che nella mitologia e nella letteratura classica trova la sua fonte d’ispirazione.

Non stupisce perciò che la giuria della 29° edizione del Premio Italo Calvino lo abbia eletto a vincitore, in ex aequo con Elisabetta Pierini che conosceremo nel prossimo numero della rubrica. Con il suo manoscritto intitolato La Splendente, Cesare ripercorre l’epoca della Guerra di Troia, gettando una luce nuova e inattesa sui fatti e sui personaggi che hanno animato una delle vicende più affascinanti della cultura greca, da cui tutti noi in un modo o nell’altro discendiamo.

 

N.d.R.: La Splendente è stato pubblicato a gennaio 2018 per Feltrinelli.

 

1) Con il tuo romanzo hai voluto recuperare una sezione della mitologia greca per riscriverla secondo la tua personale sensibilità. Perché hai scelto questo percorso?

Ho scritto un romanzo a tema mitologico perché mi appassionano la mitologia e le religioni antiche, in particolare quella greca. Il mito ha questa misteriosa qualità di continuare a essere affascinante attraverso le epoche storiche: ci sono storie che continuano a dirci qualcosa, anche quando non riguardano più direttamente il nostro tempo e la vita che viviamo tutti i giorni. La vita degli eroi omerici, per esempio, era molto diversa dalla nostra. Nonostante ciò, continuiamo a interessarci a loro, ci appassioniamo alle loro vicende, le raccontiamo. Questo perché in un certo senso si tratta di storie che continuano a parlare di noi, a dire qualcosa su cosa significa essere umani. Il “gioco” che ho cercato di realizzare col mio romanzo è il “gioco” che il mito ha sempre realizzato attraverso il tempo, cioè produrre una serie di risonanze e associazioni fra certe situazioni del mito e certi aspetti della vita. La vita è l’argomento di cui volevo parlare, prima di tutto: volevo descrivere cosa significa amare la bellezza nella vita, cosa significa perderla. E, soprattutto, cosa significa fare una guerra per riconquistarla.

 

2) Da dove nasce la tua passione per la cultura greca e per l’età classica?

Mi ha sempre interessato l’attenzione che l’età classica aveva per ciò che è “umano”, per cosa significa essere umani e vivere da esseri umani. Pierre Hadot diceva, ad esempio, che la filosofia antica era essenzialmente un “modo di vivere”. In un certo senso questa attenzione per la vita ha caratterizzato tutta l’età classica e le età che si sono ispirate ad essa, come il nostro Rinascimento. In un certo senso, mi pare che nell’antichità ci si preoccupasse di cosa significava essere umani, di come si dovesse vivere. Secondo me, i miti si raccontano ancora e sono così interessanti perché hanno sempre qualcosa da insegnare sulla vita, perché attraverso immagini “fantasiose e fantastiche” riescono a dirci così tanto di noi stessi. Quanto è umano Icaro che vola troppo vicino al sole? Possiamo credere che sia solo il personaggio di una vecchia storia greca, ma la sua temerarietà può essere riconosciuta nella gioventù di ogni epoca, forse anche della nostra.

 

3) Pur basandoti su ciò che è dato per assunto in merito alla Guerra di Troia, hai ridisegnato molti dei personaggi che l’hanno animata: come hai condotto la loro ricostruzione?

La maggior parte delle immagini significative sono venute dalla lettura dei testi classici, quello che ho fatto io è stato più che altro ricucire assieme le diverse versioni della storia per costruire un coro. Una delle bellezze dei miti è che esistono versioni alternative di una stessa vicenda. Il mio tentativo è stato più che altro quello di mescolare quelle in grado di rendere più semplice la costruzione di associazioni e risonanze attorno ai temi che mi interessano. L’aspetto più lontano dal mito classico è, probabilmente, la psicologia dei personaggi. È difficile dire cosa stia alla base di una psicologia fittizia come quella di un personaggio di un romanzo. In parte si tratta, certamente, di imitare qualcosa della realtà: in questo senso i personaggi ci risultano familiari. A me interessava mettere in gioco psicologie che sembrassero reali, all’interno di una vicenda mitologica fittizia. Il problema è che non è mai veramente chiaro quanto queste psicologie fittizie dipendano dalla realtà o siano invece ispirate dalle immagini del mito, e quanto le immagini del mito che ho scelto siano state scelte a loro volta perché richiamavano qualcosa della realtà. Parte del divertimento, nel comporre questo romanzo, è stato vedere come davvero qualsiasi cosa, dalle letture che facciamo alle persone che abbiamo incontrato, finisca poi per partecipare più o meno consciamente alla costruzione di una storia.

 

4) Hai intitolato il tuo manoscritto La Splendente, riferendo questo solenne attributo alla figura di Elena. Perché Elena è la Splendente?

Prima di tutto Elena è la Splendente perché lo dice il suo nome. Una delle possibili etimologie del nome lo fa risalire al greco ἑλένη (helene), che significa “torcia”, “fiaccola”. Il nome può quindi essere ricollegato all’idea di qualcosa che splende, da lì il titolo. Elena è la figura principale, il motore delle vicende degli uomini, ma non diventa mai un vero e proprio personaggio, resta sempre in qualche modo distante. Ho cercato di ricollegarla a tutta una serie di concetti, ma di fatto quella di Elena è un’immagine inesauribile. Volevo dare l’idea di un “oggetto” assolutamente incorruttibile, che continua a brillare anche quando tutto sembra perduto. La mia Elena non è la “cagna” traditrice di suo marito, come lei stessa si definisce nei poemi, né il simulacro senza corpo di Euripide. È una luce, prima di tutto, che brilla tanto più intensamente quanto più l’orrore le si oppone.

 

5) Tu cosa pensi di aver imparato dalla storia passata, soprattutto da quella greca?

Io mi sono interessato principalmente di storia mitologica per cui, in un certo senso, non mi sono occupato di “Storia” vera e propria. Però, a guardare bene, il meccanismo con cui la storia in generale ci insegna qualcosa non è tanto diverso da quello dei miti. Impariamo dalla “Storia” così come impariamo dalle storie, ovvero perché riconosciamo delle somiglianze fra elementi del racconto e elementi della nostra vita. In questo senso, tutte le storie dicono sempre qualcosa su di noi. Quella che ho scritto è principalmente la storia di una guerra, la Guerra di Troia. Ora, questa guerra può significare tutto e ha significato tutto, nel corso del tempo. Il modo in cui io, nello specifico, ho voluto parlarne è legato a un certo modo doloroso di vivere e abbandonare la giovinezza, è legato al desiderio e alla necessità del sacrificio, alla nostalgia per una bellezza scomparsa da riconquistare.

 

6) Qual è il tuo personaggio preferito e perché, tra quelli che hai trattato nel libro?

Achille è probabilmente il personaggio a cui sono più affezionato, anche al di là del mio romanzo. C’è qualcosa di tragico nel modo in cui tutto quello che fa viene continuamente frustrato. Achille è il migliore fra gli Achei, ma nulla gli riesce facile. Ho cercato di riprendere un po’ questo concetto della frustrazione e di raccontarlo in maniera diversa. Il mio Achille non è esattamente quello classico, passionale, irascibile. È ancora un personaggio dalle emozioni violente, ma principalmente perché è quello che più intensamente percepisce la paura della morte e del dolore, e che più intensamente la combatte. Un altro personaggio che mi è piaciuto molto è Odisseo. La sua lotta è diversa da quella di Achille perché è più silenziosa, è una lotta di resistenza. Odisseo sa che tornerà a casa, ma sa anche che dovrà attendere vent’anni. Sono due figure molto diverse e forse per questo mi sono piaciute così tanto. Mentre Achille deve affrontare un solo istante terribilmente spaventoso (quello della morte che gli è stata profetizzata), Odisseo si trova invece combattere non contro il fatto che il tempo gli abbia sottratto qualcosa, ma con lo scorrere stesso del tempo: la sua prova è saper attendere, saper resistere durante i vent’ anni necessari per il ritorno a casa. Sono anche simili, però: Achille non si arrende alla paura della morte, Odisseo non cede alla paura di una vita dolorosa.

 

7) Usciamo dal libro e parliamo di te: perché hai deciso di partecipare al Premio Italo Calvino? E perché tra tutti i concorsi possibili hai scelto proprio il Calvino?

Quello del Premio Italo Calvino è uno dei primi nomi che compaiono quando si cerca un concorso per esordienti o un’occasione di pubblicazione, soprattutto se si ha un po’ di familiarità con Internet. È uno dei premi più conosciuti ed è uno dei pochi in cui viene comunque consegnata a tutti i partecipanti la scheda di lettura del romanzo. Insomma, ci sono ottimi motivi per partecipare, se si ha un romanzo inedito da far leggere a qualcuno che non sia un amico o un parente, per ricevere un giudizio valido e professionale. Ho scelto di partecipare con La Splendente principalmente perché stavo terminando la prima stesura del libro proprio nel periodo in cui scadeva la partecipazione al premio. Inoltre la quota di partecipazione alla 29° edizione era stata diminuita per i giovani sotto i venticinque. Mi sono sembrate coincidenze interessanti, così ho deciso di provare.

 

8) Cosa ti ha dato il Premio Italo Calvino?

In realtà non lo so ancora, il percorso è appena iniziato. Poter pubblicare è un traguardo, ma anche un inizio: non so cosa succederà da qui in poi e ho molta voglia di scoprirlo. L’aiuto da parte di quelli del Calvino è, ovviamente, grandissimo. In qualche maniera è grazie a loro se si riesce a infrangere la barriera del primo contatto con gli editori. Purtroppo per ora non so dire molto di più, perché quello che accadrà è tutto da scoprire.

 

9) Dalla vittoria alla futura pubblicazione: cosa sta succedendo a te e al tuo manoscritto?

Per ora ho avuto un importante incontro con la casa editrice Feltrinelli e ho firmato il contratto. Il lavoro vero e proprio sul libro ha i suoi tempi e, almeno per me, deve ancora cominciare. La pubblicazione è prevista per la seconda metà del 2017. Sono molto curioso di vedere che cosa ne verrà fuori e come sarà lavorare con Feltrinelli. Ovviamente spero che il romanzo venga letto e, soprattutto, che piaccia a chi lo leggerà. Paure e dubbi particolari non ne ho, non lo dico per spavalderia. Tutto questo poteva non succedere e invece è successo: non mi sembra che ci sia niente da perdere in quello che deve venire. Per il momento, più che altro, sono grato a tutta una serie di circostanze e di persone che hanno reso questa cosa possibile, volontariamente o no.

 

10) Te la senti di anticiparci qualcosa su Elisabetta Pierini, vincitrice assieme a te dell’ultima edizione del Calvino?

Purtroppo non ho avuto molte occasioni di parlare con Elisabetta, anche se ci siamo incontrati diverse volte. Fra una cosa e l’altra abbiamo partecipato a qualche evento, ma eravamo quasi sempre circondati da molte altre persone, quindi non so bene cosa dirti di lei, a parte che sono molto curioso di leggere il suo libro! Per il resto, spero che ci incontreremo di nuovo in giro, magari a qualche presentazione. Intanto le mando un caro saluto e le auguro tutta la fortuna che merita.


 

Alessandro Tuzzato

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – marzo 2016
Illustrazione di Davide Lorenzon

Alessandro Tuzzato insegna italiano e storia in una scuola superiore nei pressi di Venezia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in letteratura italiana nella leggendaria California, dove ha vissuto per ben nove anni che ricorda ancora come uno dei periodi più belli della sua vita. Riservato e affascinante, si dedica da sempre alla scrittura, spaziando dalla narrativa alla trattazione scientifica di figure storiche più o meno legate al mondo della letteratura.

Alessandro si è guadagnato l’accesso alla finale della 28° edizione del Premio Italo Calvino con L’inutilità dei buoni, breve romanzo a tratti inquietante, magistralmente costruito intorno alla figura di uno schizofrenico che racconta il suo percorso di vita, tra apparenze di normalità e deliri, tra memorie perdute e riconquistate, tra illusione e realtà.

1) Il titolo del tuo romanzo colpisce subito per il sapore amaro che trasmette. Chi sono i buoni a cui ti riferisci?

L’inutilità dei buoni richiama una frase che Daniela, una dei protagonisti, urla al fidanzato Roberto durante un litigio. Roberto infatti è convinto di essere stato troppo buono con lei, in tante occasioni, e spesso glielo ricorda con rancore. Daniela, per quanto sia stata davvero cattiva, a un certo punto si stanca di essere vista in maniera negativa e, per difendersi, lo accusa “d’essere inutile come tutti i buoni”, scatenando così una serie di reazioni emotive imprevedibili e problematiche. Si tratta di una frase centrale, perché dopo questo momento il protagonista precipita nella malattia psichica di cui parlo nell’ultima parte della storia. Comunque, non avendo concepito il romanzo come una trattazione sulla bontà, trovo difficile spiegare con precisione chi siano i buoni. Ciò che ho fatto è stato sottolineare come sia facile essere fraintesi quando ci sono in ballo i sentimenti e come la normalità sia, per così dire, soggettiva. Roberto crede di essere un buono, ma in realtà viene visto da tanti come un debole. Una specie di Griselda al maschile, ma senza lieto fine, insomma.

2) Cosa ti ha spinto a trattare un tema spinoso come quello della malattia mentale?

Prima che L’inutilità dei buoni diventasse il testo che è diventato, non sapevo che avrei parlato di malattia mentale. Volevo scrivere un romanzo in cui il protagonista, scampato a un omicidio da ragazzo, da adulto sarebbe diventato una specie di giustiziere solitario. Poi però è arrivato Dexter, protagonista di una serie televisiva basata proprio su una storia del genere e quindi ho cambiato argomento. Ho gettato nel cestino centinaia di pagine e dozzine di descrizioni di omicidi e mutilazioni. Per fortuna, mi viene da pensare adesso. E mi sono rimesso a scrivere fino a quando, stesura dopo stesura, la trama è emersa nella sua versione definitiva. Perciò la schizofrenia di uno dei personaggi è stata un’acquisizione tardiva, inserita semplicemente perché mi pareva che la storia girasse meglio. Così ho nuovamente dovuto riscrivere interi capitoli, aggiungendo dettagli e situazioni che prima non servivano. E siccome non ho alcuna esperienza nel campo della psichiatria, sono stato costretto a informarmi. Ho letto dei manuali universitari, ho consultato qualche blog sulla farmacologia e ho cercato testimonianze di persone che hanno sperimentato questo problema.

3) Perché hai scelto di utilizzare il punto di vista del malato? Che tipo di lavoro hai svolto per disegnare il tuo protagonista?

La scelta di far parlare in prima persona il personaggio malato è stata meditata. In origine avevo pensato di usare la terza persona, ma poi ho capito che il suo disagio emergeva in maniera molto più diretta se veniva espresso da un io narrante. E l’uso della prima persona non è stata l’unica attenzione linguistica che ho dedicato al personaggio di Roberto: da quando la malattia si manifesta le sue frasi diventano più brevi, spesso sconnesse, sintomo sottile ma lampante della sua confusione mentale. Ho investito un bel po’ di tempo in questa caratterizzazione e credo che mi sia riuscita abbastanza bene. È stato un lavoro impegnativo che però alla fine ha presentato pure un risvolto divertente: infatti alcuni amici, dopo aver letto il libro, mi hanno chiesto se fosse un’autobiografia, cioè se fossi io il malato di cui parlo. “Certo che lo sei”, hanno insistito, “parli in prima persona!”

L’ho già fatto, ma vorrei cogliere l’occasione per ribadirlo per iscritto: NO, cari amici miei, lo schizofrenico – a tratti quasi autistico – vittima d’innumerevoli complessi e omicida del mio romanzo non sono io!

4) Documentandoti sulla malattia mentale ti sei fatto un’opinione sul mondo della psichiatria?

Questa domanda mi coglie un po’ impreparato, perché non ho nessuna competenza professionale al riguardo e non so come rispondere. Della psichiatria ne so poco o niente, anche se mi è stato detto più di una volta – e lo riferisco con una certa soddisfazione – che ho saputo rappresentare in modo molto verosimile la malattia mentale di Roberto. Il primo a fare questo commento è stato proprio Paolo Giordano, durante la cerimonia di premiazione del Calvino. Ha detto che secondo lui sono riuscito a disseminare l’opera di dettagli che avvicinano lentamente il lettore alla scoperta della malattia del protagonista. Però, sebbene sia ovvio che la schizofrenia di Roberto rappresenti un tema molto importante del romanzo, credo che nella trama ci siano pure altri aspetti altrettanto interessanti. Ad esempio il ruolo della memoria – e perciò della storia – nella vita di tutti i giorni. Più Roberto impazzisce, meno ricorda il suo passato; arriva progressivamente a dimenticare anche ciò che ha fatto il giorno prima, fino a doversi rifugiarsi in un presente ripetitivo più facile da gestire. Ecco, l’influenza della storia passata sul presente era, in origine, la riflessione che volevo proporre con il mio romanzo.

5) “Pensa che vergogna se si venisse a sapere”. Questa è senza dubbio una delle frasi ricorrenti del romanzo. Qual è il suo significato?

Pensa che vergogna se arrivassi in ritardo”, oppure “Che vergogna se la gente pensasse che ci diamo delle arie”. Sono alcune delle tante varianti del commento che la mamma di uno dei personaggi ripete di solito. Ma non sono commenti necessariamente collegati alla malattia. Sono espressioni che ho inserito allo scopo di rafforzare la connotazione delicata e ipersensibile del personaggio. Pronunciate troppo spesso perdono però il valore positivo che tutto sommato dovrebbero avere. Come ho già detto, ritengo che proprio in questi leggeri scarti risieda uno dei nodi della vicenda: la constatazione che il confine tra salute e malattia o, nel caso in questione, tra gentilezza e ossessione, sia molto esile. Perché alla fine la volontà di essere educata a tutti i costi fa emergere l’aspetto poco naturale e, per così dire, ossessivo di questa madre.

6) Come ti sei sentito quando infine hai deciso che bastava rimuginarci sopra e hai inviato il manoscritto al Calvino?

Se fosse stato per me probabilmente ci starei ancora lavorando. Sono tuttora convinto che si potrebbero fare dei leggeri cambiamenti, accorciare un po’ la storia, renderla più essenziale. Ecco, se dovessi modificare L’inutilità dei buoni sicuramente toglierei qualcosa. Credo sia tipico di chi è alle prime armi gettare nel calderone elementi che non sono necessari. Comunque, prima di convincermi che era ora di far circolare il romanzo, l’ho fatto leggere a un gruppo di amici che mi hanno elargito consigli e suggerimenti. Visto che tutto sommato i commenti erano positivi, alla fine ho deciso di partecipare al Calvino. Mi dispiace solo di non aver dato retta a chi mi aveva consigliato d’invertire l’ordine dei primi capitoli. Mi spiego meglio: fino a circa metà dell’opera la storia riguarda diversi personaggi e procede per episodi paralleli. La posizione dei primi capitoli può perciò essere cambiata tranquillamente. Ho preferito essere prudente e ho aperto il romanzo con una sezione scritta in modo molto tradizionale. La seconda parte è più originale e, adesso ne sono convinto, meritava di essere messa all’inizio, come del resto avevo pensato di fare prima della partecipazione al PIC. L’esito sarebbe stato lo stesso se fossi stato più coraggioso? Non lo so, in fin dei conti sono proprio le pagine iniziali a determinare la prima impressione.

7) Cosa hai provato quando hai saputo di essere un finalista?

Di solito non rispondo alle chiamate da numeri che non conosco. Però nei giorni a ridosso della comunicazione dei finalisti avevo il cellulare sempre a portata di mano, e tutta l’intenzione di rispondere a qualsiasi cosa fosse apparsa sul display. Insomma, ci speravo. Non credo molto a chi dice di avere dimenticato la propria partecipazione al concorso, mi pare davvero strano. Io sicuramente non l’ho fatto. Appeno ho ricevuto la telefonata ho provato grande soddisfazione. I dubbi che avevo avuto e che dipendevano dal fatto che nessuno, oltre ai miei amici, aveva letto qualcosa di mio si sono dissolti in un secondo. Ovviamente ero in uno stato di agitazione totale che non mi ha permesso di capire date, orari e dettagli che mi venivano trasmessi. Per fortuna il giorno dopo è arrivata anche un’email di conferma. I due giorni a Torino sono stati molto piacevoli. Ricordo tutto con grande gioia: la premiazione, il rinfresco, le chiacchiere coi lettori e con gli altri finalisti. Ecco, è questa una delle grandi opportunità offerte dal Premio: la possibilità conoscere personalmente chi ha letto il tuo lavoro in maniera professionale e chi, come te, coltiva la passione della scrittura.

8) Com’è stato l’impatto con il mondo dell’editoria?

Qualche giorno dopo la cerimonia di premiazione sono stato contattato dagli editor di due case editrici molto importanti. Entrambi erano presenti alla premiazione ed entrambi avevano ricevuto il mio romanzo direttamente dagli organizzatori. Dopo averlo letto, si sono dimostrati entusiasti e decisi a proporlo ai rispettivi comitati di valutazione (non sono sicuro che si chiamino così). Uno di loro, però, complici le vicende Mondazzoli, ha dovuto rivolgere altrove la propria attenzione. L’altro, invece, avendo già qualche autore esordiente da seguire, mi ha spiegato che avrebbe rischiato troppo aggiungendo alla lista un nuovo esordiente.

Qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata da una piccola casa editrice che però, l’ho scoperto dopo, lavora quasi sempre a pagamento. Anche se a me non hanno chiesto soldi, ho rifiutato perché vorrei un destino più felice per L’inutilità dei buoni. Comunque devo ammettere di non essere mai stato molto attivo nella promozione del mio libro. A questo punto penso che contatterò qualche agente per vedere se avrà voglia di propormi. Avevo pensato di mettermi al telefono e farlo personalmente, ma mi sto accorgendo di quanto sia difficile destreggiarsi nel mondo degli editori e rivolgersi a un professionista è sicuramente più sensato.

9) A prescindere dal destino editoriale che incontrerà L’inutilità dei buoni, scriverai altri romanzi?

Guarda, subito dopo aver concluso questo romanzo sono stato tentato di partire dalle pagine che non avevo usato per comporne un altro. Ma sarebbe stato un lavoro di riciclo che avrebbe prodotto qualcosa di troppo simile al primo libro, perciò ho scartato l’ipotesi quasi immediatamente. Da qualche mese ho iniziato a scrivere il secondo romanzo. Sono a buon punto, però mi mancano gli ultimi dettagli, quelli più impegnativi: qualche dialogo, qualche episodio per i personaggi secondari e un’attenta lettura d’insieme per vedere se il tutto è equilibrato. Io lavoro così, prima costruisco l’architettura generale, poi aggiungo tutto il resto. È la fase più difficile ma anche la più bella, perché è nell’ultima stesura che la storia può diventare una storia raccontata bene. Se sarò soddisfatto lo spedirò alla prossima edizione del Premio Italo Calvino, anche se ti confesso che la pubblicazione de L’inutilità dei buoni mi farebbe rinunciare con piacere alla seconda partecipazione.


Mariapia Veladiano

martedì, 20 Marzo 2018

Intervista di Ella May – Dicembre 2015

Illustrazione di Davide Lorenzon

Mariapia Veladiano è nata a Vicenza nel 1960. Dopo essersi dedicata con passione all’insegnamento, attualmente è preside di una scuola vicentina. Nel 2010 si è aggiudicata la vittoria nella 23°edizione del Premio Italo Calvino grazie all’opera Memorie mancate, diventata poi nel 2011 il bellissimo romanzo La vita accanto edito da Einaudi Stile Libero, che l’ha portata in finale al Premio Strega. Oggi è una delle scrittrici più amate del panorama italiano. La ritroveremo in libreria a partire dal 28 gennaio [2016] con Una storia quasi perfetta, edito da Guanda.

N.d.R.: sempre per Guanda, Mariapia Veladiano ha pubblicato il suo ultimo libro Lei (ottobre 2017). È stata scelta come giurata della 31° edizione del Premio Italo Calvino.

 

1) Prima di qualsiasi altra cosa, puoi raccontarci il tuo rapporto con i libri e con la scrittura?

Allora partiamo dal fatto che sono stata una lettrice appassionata. Da piccola mi perdevo nei libri e provavo a scrivere storie simili a quelle che leggevo. Mi piaceva inventare mondi e come tutti i bambini sognavo di essere io la protagonista di tutte le storie. Scrivere mi è sempre piaciuto anche perché mi riusciva facile, facile rispetto alle richieste della scuola, ad esempio, e le soddisfazioni arrivavano senza sforzo. È una sensazione bellissima quella che ci accompagna quando le parole si scrivono quasi da sole. Tutti i bambini intorno fanno sforzi tremendi per scrivere qualcosa e noi invece no, scriviamo e scriviamo. Poi è arrivato un altro tipo di scrittura. Scrivere per capire quel che mi capitava e per trasformarlo anche. Raccontare storie che intercettano le vite degli altri e ne trovano il comune segreto. Segreto perché non sappiamo chiamarlo per nome ma lo sappiamo riconoscere se qualcun altro lo nomina. Qui la scrittura è diventata molto più faticosa. Una bella fatica, ma del tutto diversa dalla spontaneità con cui si scrive da bambini.

 

2) Parlaci del manoscritto che hai inviato al Premio Italo Calvino: com’è nato e perché l’hai scritto?

La storia di Rebecca bambina che si sente bruttissima è arrivata proprio da sola. Del resto ho scritto sempre così, con la libertà di chi non ha in mente di pubblicare e si dedica alle storie che scrive per riscriverle più avanti e poi ancora riscriverle e ogni tanto rileggerle. Però a posteriori riconosco di avere raccolto dai ragazzi, dal mio vivere a scuola, una crescente paura di non essere accettati, un rischio epocale di esclusione, una specie di cattivo segno dei tempi. Viviamo un’epoca “giudicante”. Tutti spettatori davanti a uno schermo, seduti, pronti a giudicare secondo canoni rigidi e costruiti. Non è facile vivere così. Rebecca lo racconta. “La vita accanto” è stato scritto in molto tempo, a pezzi, un pensiero alla volta. Proprio niente a che vedere con la scrittura vorticosa di quando si è bambini.

 

3) Qual è stato il percorso che ti ha portato fino al Calvino?

Nel 2010 ho compiuto 50 anni. Un piccolo trauma. E mi è venuto il pensiero di provare a vedere se a qualcuno potesse interessare quel che scrivevo. Forse un bisogno di conferma di valere, chissà. O forse ho superato la paura del giudizio. Sulla scrittura, voglio dire. Ho scritto molto prima. Racconti, qualche romanzo tutto intero, poesie. Ma non avevo cercato la pubblicazione. Difficile dire che cosa spinge davvero a esporsi attraverso la scrittura. In realtà io vivevo già da anni una piccola esposizione, ho lavorato per Il Regno, ho fatto la redattrice di un settimanale, ma si trattava di scrittura di servizio. La narrazione espone molto di più. È una consegna di sé al romanzo e non per il banale motivo che sempre quel che si racconta passa attraverso la propria vita e ne conserva la traccia, ma anche perché tutto proprio tutto è nostro in un libro, ogni parola scelta, ogni nome, ogni luogo. È uno squadernamento anche quando ci si nasconde programmaticamente.

 

4) Come hai vissuto la partecipazione al Calvino?

In realtà avevo un mare di pensieri. Io non credo a chi racconta di avere inviato un manoscritto e di averlo poi dimenticato. È proprio una piccola o grande consegna di sé. Io non pensavo di essere segnalata né di vincere ma speravo. La premiazione è stato un momento intenso. Non conoscevo assolutamente nessuno, ero arrivata a Torino da sola, non avevo amici né conoscenti. È stato facile essere accolta. In realtà i “lettori” e giudici del Premio costituiscono un gruppo molto eterogeneo ma capace di rapporti di amicizia vera. Da allora non ci siamo persi più. E ho relazioni di amicizia e affetto anche con i finalisti di quell’anno: Antonio Bortoluzzi e Pierpaolo Vettori ad esempio. Che poi hanno pubblicato e continuato a scrivere.

 

5) A seguito della vittoria è arrivata la pubblicazione; quale effetto ha avuto su di te l’ingresso nel mondo dell’editoria in veste di scrittrice?

L’arrivo in Einaudi è stato un vortice. Non sapevo che cosa aspettarmi, non avevo nessuna esperienza di case editrici e pubblicazioni. Non conoscevo nessuno. Einaudi Stile Libero ha creduto molto nel libro, un bel lavoro di squadra. Ho imparato a mettere in fila periodicamente le cose importanti, a riassumermele, perché l’esposizione improvvisa può diventare pericolosa, far perdere l’equilibrio. L’età mi ha aiutata.

 

6) Dopo l’esordio è cambiato il tuo rapporto con la scrittura?

Un poco sì è cambiato. È cresciuto il peso di uno sguardo esterno sulla scrittura. Scrivere sapendo di non pubblicare ci lascia più liberi. Poi arrivano le scadenze, i tempi da rispettare. Il fatto di non essere una scrittrice “seriale”, si può dir così? Cioè di scrivere storie molto diverse fra loro, dà un senso di esordio ad ogni uscita. Un doversi chiedere: e questo romanzo come sarà accolto? C’è da dire che intanto erano cambiate altre cose nella mia vita. Nei mesi del Calvino ho anche vinto il concorso per fare la preside, in Trentino. Un’esperienza bellissima in una regione che ha uno straordinario reale attento interesse per la scuola e che è un laboratorio continuo di sperimentazione didattica e anche organizzativa. La mia vita ha avuto una accelerazione impensata.

 

7) Di recente il tuo romanzo La vita accanto è diventato uno spettacolo teatrale. Com’è avvenuto il passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico?

Quando un libro diventa teatro cambia natura, diventa un’altra cosa. Il romanzo è diventato un monologo. È stato riscritto dalla poetessa Maura Del Serra, quindi una scrittura d’artista, straordinaria. Un monologo vive completamente della identificazione con l’attrice che lo interpreta. Monica Menchi, che lo porta in teatro, ha una personalità fortissima, fin dalla prima battuta molto più potente rispetto alla voce di Rebecca nel libro. È giusto così. Io non ho avuto alcuna parte nella trascrizione teatrale e anche questo è giusto che sia così.

 

8) È vero che hai una passione particolare per il colore azzurro?

Sissì. Amo l’azzurro e ho proprio chiesto che ci sia nelle copertine. Ma sono stata sempre fortunata perché tutti gli editori, Einaudi per i due romanzi, Rizzoli per il giallo per ragazzi, e ora Guanda, mi hanno sempre coinvolta nella scelta delle copertine. La finestra de La vita accanto, con la tenda che vola nell’azzurro, è assolutamente perfetta. È tutta di Riccardo Falcinelli, splendido creatore di quasi tutte le copertine di Einaudi Stile Libero. È completamente sua anche quella di Ma come tu resisti, vita (2013). Io ho solo chiesto che fosse la coda di un pavone bianco, simbolo di resurrezione, perché il libro racconta le mille resurrezioni di cui possiamo diventare capaci anche quando non lo sappiamo. E lui ha inventato questa coda che è anche un’esplosione, di vita appunto. Per Il tempo è un dio breve (2012) ho proposto un dipinto di un pittore giapponese che amo, Yamaguchi Kayo. Ed è lo stesso della copertina del prossimo libro. L’unica senza azzurro, ma era ben tempo di cambiare, altrimenti il lettore pensa che sia sempre lo stesso libro!

 

9) Il successo letterario ha in qualche modo cambiato la tua vita?

Tutto molto veloce, ecco. Ho difeso bene la mia vita dalla eccessiva esposizione, ho viaggiato molto con il libro evitando per quanto possibile le occasioni di esposizione impropria. Ma è davvero oggi tutto troppo compresso.

 

10) A gennaio [2016] sarai in libreria con Una storia quasi perfetta. Qual è il tema del tuo nuovo romanzo? E dove potremo incontrarti?

È una storia di seduzione. C’è una donna, l’incanto della sua arte, lei disegna, e soprattutto della sua vita, rinata già una volta. C’è un uomo, presente dall’inizio alla fine. Il romanzo è quasi un duetto. Torna Vicenza, come nel primo romanzo, luoghi nuovi della città, che continua a non essere nominata. Le prime presentazioni saranno a Vicenza, Roma, Milano. È bello accompagnare i propri romanzi, incontrare i lettori e farsi restituire da loro la storia, diventata diversa attraverso la loro vita.


 

Mimmo Candito

lunedì, 5 Marzo 2018

È mancato Mimmo Candito, direttore de L’Indice dei Libri del Mese.
Desideriamo ricordarlo per la grande generosità e lo spirito di libertà con cui ha sempre dato spazio al Premio sulle pagine della rivista.

La giuria della XXXI Edizione

mercoledì, 31 Gennaio 2018

Teresa CIABATTI

Laureata in Lettere Moderne alla Sapienza, ha pubblicato il suo primo romanzo nel 2002, Adelmo, torna da me (Einaudi), da cui è stato tratto il film L’estate del mio primo bacio, di Carlo Virzì (2005). Del 2008 è il suo secondo romanzo, I giorni felici (Mondadori). Escono poi, nel 2013, Il mio paradiso è deserto (Rizzoli) e, nel 2017, La più amata (Mondadori), classificatosi in seconda posizione allo Strega 2017. Suoi racconti sono comparsi sulle riviste Diario e Nuovi Argomenti. Dell’antologia Ragazze che dovreste conoscere (Einaudi Stile Libero) del 2004, fa parte il suo pezzo I desideri di Rossella O’Hara. Collabora con La Lettura del Corriere e ha svolto attività di sceneggiatrice, tra l’altro per Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli (2009).


 

Luca DONINELLI

Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano con una tesi su Foucault, si è poi dedicato alla narrativa, ottenendo numerosi importanti riconoscimenti. Il suo lungo racconto d’esordio, I due fratelli (Rizzoli, 1990) vinse il Premio Berto. Con La revoca (Garzanti, 1992) ebbe il Premio Selezione Campiello e con La nuova era (Garzanti, 1999), finalista allo Strega, il Grinzane Cavour. Le sue opere più recenti sono Le cose semplici (Bompiani, 2015, premio Selezione Campiello 2016) e La conoscenza di sé (La Nave di Teseo, 2017). Di particolare rilievo per il suo profilo letterario e intellettuale, il libro intervista Conversazioni con Testori (1993, Guanda). È anche autore teatrale (Ite missa est, 2001; La Mano, Garzanti, 2001; Maryam, 2017).


 

Maria Teresa GIAVERI

Scrittrice, traduttrice, docente universitaria di Lingua e Letteratura francese a Pescara, Napoli, Pisa, Messina, tra il 2008 e il 2015 è stata titolare della cattedra di Letterature Comparate presso la Facoltà di Lettere di Torino. A Napoli e a Milano, ha realizzato un “Atelier di scrittura” per studenti (1981-2003) nonché ha tenuto corsi dedicati alla traduzione editoriale. Per i “Meridiani” di Mondadori ha curato i volumi dedicati a Colette (Romanzi e racconti, 2000) e a Paul Valéry (Opere scelte, 2014). Ha scritto saggi pubblicati in opere collettive, tra cui Borges e Dante (in Lectura Dantis, L’Orientale, 2001), Il viso, il naso: fra Marcel Proust e Murasaki Shikibu (in La scrittura e il volto, Liguori, 2006). È vicepresidente del Pen Italia.


 

Vanni SANTONI

Scrittore, giornalista, editor. Dopo l’esordio con lo sperimentale Personaggi precari, ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Gli interessi in comune (2008), oggetto, alla sopravvenuta irreperibilità, di copie clandestine e samizdat; con Laterza Se fossi fuoco arderei Firenze (2011), Muro di casse (2015), La stanza profonda, (2017, candidato allo Strega); con Mondadori, il dittico fantastico Terra ignota (2013-14, firmato come Vanni Santoni HG in omaggio a guido Morselli) e, nel 2017, L’impero del sogno. Ha dato vita a iniziative di scrittura collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013) e dirige la narrativa di Tunué, una linea di tendenza tra le più interessanti nell’odierno panorama editoriale. Scrive sul Corriere della sera.


 

Mariapia VELADIANO

Laureata in Filosofia a Padova con una tesi su Bonhoeffer, si divide tra le attività di scrittrice, giornalista (collaborando, in particolare, con Il regno e con Repubblica) e dirigente scolastica. Nel 2010 ha vinto il Premio Calvino con La vita accanto, uscito nel 2011 da Einaudi Stile Libero e arrivato secondo allo Strega del medesimo anno. Escono successivamente il romanzo Il tempo è un dio breve (Einaudi SL, 2012); Ma come tu resisti, vita (Einaudi SL, 2013), un testo di ragion pratica; ancora un romanzo, Una storia quasi perfetta (Guanda, 2016); e, nel 2017, il singolare Lei, ispirato alla Maria evangelica. Il grande interesse di Veladiano per i temi della scuola e dell’educazione è testimoniato da Parole di scuola (Erickson, 2014).