Per anni mi sono mossa senza tregua, ho cambiato casa, lavoro, vita, amici, abitudini. Così ho collezionato città, una dopo l’altra. Prima la Sardegna, poi Siracusa. E Catania, Genova, Parma. E i soggiorni all’estero, brevi, meno brevi. Fino a Livorno.
Il risultato è che mi mancano tutte, in maniera diversa, per motivi diversi. Così oscillo, appena è possibile, da un posto all’altro, a trovare questo o quello, a ricercare odori, sapori, paesaggi di cui ho nostalgia.
Sono a Parma, in macchina, quando arriva la telefonata. Sono scocciata, guardo il numero, penso: rispondo… non rispondo. Ettore, mio figlio, davanti alla Fondazione Magnani Rocca si è seduto sul gradino, ha incrociato le braccia, perentorio: io a vedere i quadri non ci vengo. Roma 900. De Chirico, Guttuso, Capogrossi. Sono mesi che la voglio vedere. Ma il piccoletto è capatosta, lo conosco. Se ha detto che non vuole non c’è modo, ed eccoci di nuovo in strada, con me che teorizzo la nascita del Movimento di Liberazione delle Madri dai 4enni Capricciosi per la Visione in Pace delle Mostre nel Mondo, e lui che blatera di tutto e di niente.
Rispondo. Una voce gentile dall’altra parte mi comunica che sono una dei nove finalisti del Premio Calvino. Dico cose un po’ a caso, fornendo a mio marito materiale per imitazioni per diversi mesi a venire… Ma mi sta dicendo proprio quello che penso io? Ma… ma… proprio io? Oh come sono felice! Uh quanto sono felice!
Mentre la voce gentile parla, il cervello va per conto suo. No. Non ho capito bene, di sicuro. Forse stanno telefonando a tutti gli esclusi, e mi stanno dicendo che no, non sono in finale. 604-9=595 esclusi, 595 telefonate. Sì, deve essere così. Ora gli chiedo conferma. No, meglio di no, meglio chiacchierare. Il libro, gli altri finalisti. Ha detto altri finalisti. Ortigia.
Quando chiudo guardo Ettore. È stato in silenzio tutto il tempo, serio. Anche io adesso sto in silenzio, stordita. Senza parole. Andiamo a pranzo in trattoria, un paio di bicchieri di lambrusco mi ridanno colore, anche se lo stordimento durerà, con picchi e fasi di stanca, per tutti i venti giorni e passa che mancano alla cerimonia. Il giorno prima di partire, al culmine della distrazione, percorro contromano gran parte di una via del centro città. Basta, è ora, la cerimonia deve arrivare, come una liberazione. E arriva, infatti, insieme alla pace del viaggio in macchina, prima le Apuane quadrate e bianche, poi Genova e le sue altezze, Alessandria, il verde che nasconde il Tanaro. Arriva, insieme alla lucentezza del Po quando ci passiamo sopra, e io urlo attaccata al finestrino per l’amore che provo per il Grande Fiume.
Arriva, insieme alla magnificenza del palazzo del Circolo dei Lettori, alla gentilezza dei lettori che ci accolgono, all’eleganza degli invitati, ai sorrisi dei miei colleghi finalisti. Ai libri, i brani letti, quelli di cui si chiacchiera poi la sera al buffet, fra un bicchiere e l’altro. Libri, libri, libri. Amati, odiati, sopravvalutati, scoperti.
Fino al giorno dopo, quando si riparte per casa, finalmente. Perché dopo anni di peregrinare, di traslochi e spostamenti, di proclami di internazionalità, la verità è che il mio paese è qui. In questo studio in penombra, dal quale adesso scrivo, nel quale riesco a distillare tutti miei luoghi, che smonto e rimonto, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, spezzettandoli e ricombinandoli ogni volta in un modo diverso, in un vortice che ha finalmente il suo nucleo.
Veronica Galletta
martedì, 30 Giugno 2015
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