ELISABETTA PIERINI, nata a Pesaro (1964), vive a Fermignano. Laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, lavora all’Università di Urbino come assistente tecnico. Finalista al Calvino 27 col romanzo Notte, ha pubblicato un racconto sul Corriere della Sera. Ha partecipato a RicercaBo nel 2014 e al dibattito Donne di Penna, Terni 2016.
Finalista al Premio Calvino XXIX e vincitrice con L’interruttore dei sogni (ex aequo con Cesare Sinatti).
COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:
L’interruttore dei sogni (titolo di cui vedremo poi il significato) ci tuffa in una delle tante periferie residenziali moderne fatte di villette quasi identiche tra loro dove famiglie mononucleari vivono una vita priva di disagi materiali, ma asfittica e sotterraneamente perturbata. È l’ideale di vita suburbano con le sue strade pulite e le sue linde casette che gli Usa hanno esportato in gran parte dell’Occidente. Ognuno conosce la vita degli altri e ne è curioso, e le amicizie e le relazioni sono condizionate e conformate dalla prossimità. La narrativa e il cinema americani ne hanno fatto un vero e proprio topos, talvolta con tocchi preter-reali come in Ira Levin o anche − e in tal caso con un marcato senso dell’horror − in Stephen King oppure ancora nel cinema di Tim Burton. Tocchi di cui l’autrice fa un uso sottile, appena accennato, e psicologicamente motivabile. La sua protagonista è una bimba di una decina di anni, un personaggio perfettamente delineato sin dallo splendido incipit: “Le bambole erano tutte in fila sullo scaffale della cameretta di Eva. Avevano capelli lunghi, occhi chiari, e sorridevano di nascosto quando Eva le guardava. Gli occhi di vetro mandavano lampi azzurrini che galleggiavano nell’aria come una risata… La signora, la bambola più vecchia, la scrutava con gli occhi severi, occhi che mandavano lampi taglienti. Era esigente con Eva, non sorrideva mai… Eva aveva quasi dieci anni, e ancora giocava con quelle bambole”. La sua famiglia è borghesemente disfunzionale (un colto padre assente, una ex fascinosa madre preda di una sua follia quotidiana). I suoi rapporti più veri e forti, e sono rapporti di parola, sono con le bambole (con “la signora”, in particolare, che le fa da super-ego), con l’immaginario fratello Loris, con un signore, anch’esso immaginario, dotato di una misteriosa valigia, con una gallina nera. Questo mondo si apre, appunto, grazie all’interruttore dei sogni. Aggiungiamo che Eva è un nome antifrastico: Eva è goffa e bruttina − ma è un seducente personaggio. Eva, va detto, ha anche un’amica reale, Laura, che la mantiene in contatto col mondo. Eva è nomade e la vediamo in continuazione percorrere le strade di quel mondo ristretto, avventurarsi nei piccoli giardini ordinati, o anche al di là del perimetro urbanizzato in un pratone dove in un camper vive un outsider (“il professore”), perfetto contraltare degli abitanti delle villette, un vistoso, seppur mite, elemento di disordine, che naturalmente finirà espunto per un crudele gioco di ragazzini. Attorno a Eva ruotano numerosi personaggi, perlopiù coppie, come i Bentivogli (i genitori di Eva), i Felici (i genitori di Laura), i Grossi (amici dei Felici), ma anche il single Nicola Piccoli, Ester (la consunta e materna amante di Aldo Bentivogli), e altri ancora. Gran parte della narrazione è loro dedicata: e l’abilità dell’autrice sta nel farne delle singolarità ben distinte e nitide, pur nel comune quadro suburbano. I vari nuclei familiari, già strutturalmente inconsistenti, finiranno con lo sfaldarsi. Le loro vicende, spesso grigie e anodine, ma non per questo meno produttrici di sofferenza, vengono saldamente tenute in mano dalla narratrice fino al loro umanamente triste, desolato scioglimento. Insomma, un quadro di ordinaria infelicità. Non comune è poi la capacità dell’autrice di rappresentare il mondo infantile e adolescenziale, con i suoi complessi rapporti che spesso sfuggono all’occhio adulto. La conclusione, con il sogno finale di Eva, è di nuovo molto bello: Eva con un playback rimette ogni cosa nel giusto ordine, ma “in una frazione di secondo tutto si disfece”.
La lingua è incisiva, moderna, non senza belle accensioni e correlazioni inedite: “Alma [la madre di Eva] era… stata una persona piena di fascino. Ora quello stesso fascino si accendeva a tratti come una lampadina difettosa”; “Camminava [Eva] buttando un piede in qua e uno in là. Non aveva nessuna percezione del proprio corpo nello spazio. Un grosso uovo senza occhi, senza gambe, senza orecchie: un grosso uovo di carne umana”. Il frequente uso dei cognomi, che potrebbe essere fastidioso, qui risponde a una precisa e realistica logica narrativa: è l’adeguata spia di rapporti sociali ingessati che aspirano alla correttezza. In generale: la parola giusta al posto giusto.
UN BRANO PER APPREZZARLA:
“Excipit”
Era notte fonda. Dalle tende scostate Eva vide il pallido cerchio della luna come un viso cancellato e senza espressione: un viso che le era familiare. Il corvo era vicino al suo letto, proprio sul comodino, e dormiva tenendo la testa sotto l’ala nera come sotto le lenzuola. Eva si mise a sedere sul letto e accarezzò il corvo che girò la testa e volò via. Un raggio di luce bianca entrava dalla finestra aperta, sfiorava i capelli della bambina che erano neri e lucidi come le ali del corvo. Eva stese il braccio, che si allungò a dismisura fino a toccare il cerchio diafano: splendeva grande fuori dalla finestra come un’enorme pupilla. In quel momento, tutto là fuori si illuminò: la via e le case, l’una dopo l’altra si accesero e cominciarono a girare su invisibili binari. Le sembrò di sentire una specie di cantilena fatta dal frinire dei grilli, dal miagolio dei gatti e dal canto di alcuni uccelli notturni. La via era piccola e ogni appartamento era come una casa di bambola. Ogni casa si poteva scoperchiare e aprire. A Eva sembrava una giostra meravigliosa, una giostra di case di bambola…
Ogni casa, a guardarla scoperchiata, era piena di polvere di luna, polvere di follia, una polvere grigia che faceva venire cattivi pensieri. Aprì ogni tetto, ripulì ogni cosa, cambiò di posto a ogni bambola. Prese il camper e lo portò indietro nel campo e liberò le galline dalle corde. Le galline si misero a razzolare nel campo.
Eva allargò le braccia e le sembrò di essere coperta di piume d’uccello. Le luci dei lampioni illuminavano la via come grandi zucche gialle: sbocciavano e si spegnevano e sbocciavano di nuovo…
La finestra era aperta e là fuori la sera spalancava la sua grande bocca nera per inghiottirla in un morso. Eva non aveva paura. Osservò le punte degli alberi tremare, contorcersi ma poteva alzarsi più in alto di loro senza difficoltà…
Eva si fece trasportare in alto dalle correnti fino alla pupilla bianca di luna. Si avvicinò all’occhio, lo pizzicò con il suo becco d’uccello e lo spense.
La via scomparve, una casa alla volta, una persona alla volta. In una frazione di secondo tutto si disfece.
COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:
Se pure fosse una favola – e come le favole ricca di dolcezza ma tinta di corrosiva asprezza – è il più deciso attacco alla realtà da me conosciuto (in letteratura) negli ultimi tempi. E per realtà non intendo solo le casette a schiera (di origine americana) e la tristezza di chi vi abita, ma insieme l’alienazione sociale, l’abolizione del tempo, il romanzo minimalista, il compiacimento della sociologia e anche la fiaba. Tutto questo viene fatto a pezzi e crolla in una catastrofe definitiva senza proroghe o remissione.
La costruzione del dettato narrativo mostra sapienza e equilibrio e dove più spesso la favola ha per implicito (o alluso) il riferimento realistico, qui le dimensioni (il favoloso e il realistico) sono presenti in alternanza creando un equilibrio che non le mette in contrasto ma ne rafforza le specificità.
Le parole sono scelte con ricchezza di vocaboli e senza mostrare ricercatezze fastidiose.
COSA NE HA DETTO PAOLA CAPRIOLO:
Nel variegato e interessante panorama delle opere finaliste selezionate dal comitato di lettura in questa edizione del Premio Calvino, ve ne sono due molto diverse per stile e intenzioni e tuttavia accomunate dal fatto di muoversi in una zona di confine nella quale si mescolano “realtà” e favola, narrazione naturalistica e invenzione fantastica. Si tratta de L’interruttore dei sogni di Elisabetta Pierini e di Branchia della giovanissima Martina Renata Prosperi, premiati dalla giuria rispettivamente con una vittoria ex aequo e con una menzione speciale.
L’Interruttore dei sogni racconta la vita quotidiana in un moderno e anonimo sobborgo residenziale, con i suoi drammi esistenziali e psicologici che covano sotto la patina della normalità: casalinghe frustrate, coppie in crisi, adolescenti spietatamente immersi nella logica del branco … insomma, una materia che sembrerebbe addirittura predestinata alla forma del romanzo naturalistico; ma Elisabetta Pierini sfugge a questa ovvia soluzione grazie allo sguardo straniante di un personaggio, la piccola Eva, bambina “difficile”, intelligentissima e disadattata, dotata appunto di una sorta di “interruttore” mentale in grado di trasportarla (e il lettore con lei) in una dimensione fantastica, che è contemporaneamente evasione dal mondo e sua trasposizione nel linguaggio nitido ed esemplare della fiaba: una dimensione in cui le bambole parlano, le figure immaginarie convivono con quelle reali su un piano di assoluta parità e la profonda solitudine di Eva, trascurata da un padre assente e da una madre malata di nervi, incapace di integrarsi nell’ambiente dei coetanei, si trasforma in un fitto dialogo con ombre ora amiche, ora minacciose, la cui presenza sembra costituire l’unico antidoto a quel senso di vuoto che grava su di lei come su tutti gli abitanti del quartiere.
Osservata dal punto di vista di questo “altrove”, che entra continuamente in conflitto con la vita reale ma al tempo stesso la illumina di una luce inattesa, la quotidianità svela per così dire la propria ossatura, la nudità dei suoi significati o, più spesso, della sua insensatezza, in una riduzione all’essenziale che coinvolge anche lo stile, scabro e rigoroso, senza concessioni al superfluo; sino alla bellissima scena finale, una sorta di rêverie notturna, fiabesca e insieme disperata in cui Eva, dopo aver visto il proprio mondo di sogni crollare sotto i colpi della realtà, di nuovo riesce a librarsi in volo sulle ali dell’immaginazione e osserva dall’alto le monotone schiere di villette del suo quartiere come una serie di case di bambola, ne scoperchia i tetti, prova a risolvere i drammi e le contraddizioni che albergano cambiando di posto ai vari personaggi, per poi concludere il gioco spegnendo letteralmente la luce (quella della luna) e lasciando sprofondare quel triste microcosmo nel buio di una nullità irrimediabile: “La via scomparve, una casa alla volta, una persona alla volta. In una frazione di secondo tutto si disfece”.
È l’ultimo, rassegnato scatto dell’interruttore dei sogni, sul quale il romanzo si chiude smentendo, se ce ne fosse bisogno, il pregiudizio che vede nella fiaba un genere “consolatorio”.
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