Vita e morte della montagna
di Antonio G. Bortoluzzi
finalista XXI e XXIII edizione
Edizioni Biblioteca dell’immagine
Nessuno era riuscito a cacciarli via. Non la povertà dell’Ottocento, né il massacro delle due guerre mondiali. Non la miseria del dopoguerra, né l’emigrazione. Non erano state la fame, le malattie, le alluvioni e nemmeno i terremoti.
Se n’erano andati dalla loro montagna perché l’avevano voluto, uno alla volta, lungo la strada asfaltata. In fondo alla valle c’era qualcosa alla portata di tutti.
Il lavoro. Il benessere. E pareva meglio di quanto avessero mai avuto.
Giacomo Casàl è stato licenziato improvvisamente. Ha cinquantadue anni, una famiglia, una casa e una macchina eppure non sa dove andare. L’automobile e la birra che ha in corpo lo portano fuori dalla zona industriale, lungo la statale e oltre i centri abitati. Imbocca la strada ripida che porta al vecchio borgo di montagna dove abitava da bambino. Là ci sono solo ortiche e case con i muri sbrecciati. Giacomo si siede sui gradini di pietra della casa diroccata e inizia a ricordare.
Rivede siór Bianchìn, l’impresario edile venuto a reclutare i muratori per il cantiere a Cortina. E la vecchia Maria Corlét che continua filare la canapa anche se nessuno la usa più. Ci sono Gusto, Achille e Fonso con il berretto storto e il cavallo. E suo nonno con la falce in spalla e la sigaretta all’angolo della bocca che lo aspetta per scendere ai prati.
Ricorda la discesa a valle negli anni ’70 e l’abbandono della vecchia casa. Quindi la scuola, i nuovi amici, i telefilm e le canzoni che promettevano un mondo nuovo e magnifico. Poi l’adolescenza e la fabbrica, il lavoro sicuro e il denaro con cui si poteva comprare tutto quel che serviva.
Ora quel sogno è infranto e Giacomo, seduto sui gradini di pietra, sembra udire la voce del nonno che gli dice: Ricordati che la terra è più di un uomo. E vorrebbe rispondergli, parlare con lui ancora una volta come trent’anni prima.
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